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Luoghi che cambiano la vita /5

La mia Spagna

Maria Pia Farinella

La fuga dal pater familias siciliano, la transizione democratica, l’amore per i poeti. Il racconto di un luogo che significava libertà

Continua con l’articolo di Maria Pia Farinella la serie “Luoghi che cambiano la vita”. “Dal paese a Napoli, tutta un’altra vita”, di Ester Viola, è uscito sul Foglio di lunedì 8 luglio, “Il miracolo delle pietre nere”, di Giuseppe Sottile, sabato 3 agosto, “Sognare una vita nuova”, di Camillo Langone, lunedì 12 agosto, “Sognando l’autostrada del sole”, di Pierluigi Battista, il 24 agosto.

 


 

Quando penso alla Spagna, a me e alla Spagna, mi viene sempre in mente Borges. A quello che Borges diceva di Buenos Aires: “Risiedevo già qui, e poi ci sono nato”.
Il fatto è che io in Spagna non ci sono nata. Piuttosto ci sono rinata. Nel senso proprio del nascere un’altra volta. Alla vita che volevo. Perfino al lavoro che sognavo e che non era messo in conto. Era, la mia, una famiglia di insegnanti.
In Spagna. Na’ Spagna, diceva mio nonno Totò, in siciliano. E c’era in quel na’ tutta l’indeterminatezza di un luogo lontano. Lontano perfino dai gelsomini e dalle pomelie che mia madre coglieva in terrazza per profumare e proteggere dalle zanzare le mie notti d’estate. Dall’amore con cui metteva i fiori in un vaso accanto al letto. Lontano soprattutto dalle grate di gelosia erette intorno a me da mio padre, un professore molto conosciuto a Palermo. Il quale, certo, teneva molto all’istruzione, alle migliori scuole, alle frequentazioni colte. Aveva voluto che da bambina studiassi l’inglese con Miss Beryl Shaw, un’irlandese spigolosa. Ma già al ginnasio avevo capito che per lui il mio inglese era una sorta di complemento d’arredo. In forma più moderna rispetto alle lezioni di piano in uso anni prima per le ragazze. Ma sempre a corredo di una donna, magari di una futura sposa. Che fosse in grado di accompagnare il marito all’estero senza farlo sfigurare.


L’evasione da un’adolescenza il cui spazio era stretto tra casa, scuola e visite ai parenti fu la Spagna. Avevo quindici anni quando mi innamorai dei poeti spagnoli del Novecento. Sarà stata l’eco dei cantautori spagnoli. Sarà stata la ballata di Rafael Alberti nel canto degli Aguaviva: ¿Qué cantan los poetas andaluces de ahora? Cantan, y cuando cantan parece que están solos. C’era in quei versi la ribellione al franchismo, la solitudine e l’isolamento di chi viveva el exilio interior dentro la Spagna del Caudillo. C’era l’incubo dell’impossibile fuga. Ma c’era la speranza che ti offriva Lluís Llach col suo canto libero. “Non c’è nulla che ti possa incatenare per sempre. Se tiri forte forte, se continui a tirare, il palo prima o poi cadrà”. Quelle strofe facevano al caso mio. Coltivavano il dissenso. Giustificavano l’insubordinazione contro il pater familiae. E il mio era uno davvero immedesimato nel ruolo. Cominciai a investire i soldi della paghetta che dava la mamma in libri di poeti spagnoli con testo italiano a fronte. Mi sforzavo di leggere i versi in spagnolo. Ne avvertivo la forza e la voluttà. Ricorrevo al testo italiano solo alla fine. Pensare che all’epoca le traduzioni erano eccellenti. A curare le edizioni erano critici letterari e ispanisti come Oreste Macrì, Carlo Bo, Dario Puccini. Di Dario Puccini ricordo di aver comprato un libro che mi prese il cuore, il Romancero della resistenza spagnola. Lo imparai quasi a memoria.


C’era in quelle letture e in quella musica la scoperta dell’altrove. E desiderio di conoscenza, esercizio di pazienza. Il tempo avrebbe giocato a mio favore. Era un anticipo di futuro “la più bella poesia d’Europa” che divoravo. La poesia della Generazione del ‘27, secondo la definizione di Federico García Lorca che ne fu simbolo e che morì ammazzato dai franchisti nel 1936 allo scoppio della Guerra civile. C’era cosa avrei fatto e chi avrei incontrato molti anni dopo. C’era la chitarra magica di Paco de Lucia. Il quale mi avrebbe insegnato a guardare le cose per come sono. Senza sovrastrutture. A me che raccontavo la meraviglia di una sera d’estate nella Sierra Nevada con la luna “di tuberosa” che sembrava venir fuori dal “vento verde e dai verdi rami” del Romancero gitano di García Lorca, disse che l’immagine era bella in sé, per come mi era rimasta dentro, e non perché fosse già letteratura. C’era Antonio Gades che aveva ridato dignità al flamenco. Sottraendolo al turismo e interpretando come nessuno mai l’essenza dell’Andalusia, il giardino del sud del mondo. Antonio Gades, col corpo minuto e possente del ballerino. Riempiva la scena come un gigante. Magnetico e affusolato come un coltello. Di lui mi è rimasta una fotografia che lo ritrae assieme a Rafael Alberti. Campeggia in cornice tra i miei ricordi più cari. Mi raccomandò di guardare al sentimento che accompagna ogni agire, di cogliere l’umanità che c’è dietro. La sua compagnia di danza non era “solo un gruppo di ballerini”, disse. Era “un intero popolo che balla e canta”. Chiunque può cimentarsi, sempre. Prese ad esempio Enrique Jiménez detto El cojo. Il quale era grasso e, appunto, zoppo. Ma era uno straordinario bailaor. 


Delle liriche che accompagnarono i miei anni al liceo mi vengono ancora in mente strofe intere. Molto più delle poesie italiane che pure la mia generazione doveva imparare a memoria a scuola. La Spagna era una fissazione


L’estate del ‘73 mi iscrissi alla facoltà di Lingue e letterature straniere. Senza dire nulla a mio padre. Anticipai i tempi dell’immatricolazione e lo misi, per così dire, davanti al fatto compiuto. Immaginavo a priori il film che si sarebbe proiettato da solo. Lo sapevo per via delle reazioni che aveva avuto quando avevo vinto un viaggio messo in palio dal mio liceo per due settimane a Parigi. Una trama da Traviata che manco Verdi. Studiare Lingue straniere implicava viaggi e soggiorni all’estero. Attività proibite, va da sé. Infatti, quando seppe della mia scelta, mio padre raggelò. Fu un’ira fredda. Mi disse che avrei dovuto provvedere da sola all’università e che non ce l’avrei mai fatta. Poi mi tolse la parola per lungo, lunghissimo tempo. 


Non potevano esserci premesse migliori perché mi incaponissi a studiare. Tre anni dopo, nel luglio del 1976, ero già in Spagna. A Salamanca, l’università più antica del paese, quella che ancora oggi incarna lo spirito di Studium Generale del Regno con cui fu fondata e aperta a tutti nel 1218. Il genius loci risiede in un proverbio: “Ciò che la natura non dà, Salamanca non presta”. Niente storie. A ricordarlo, i muri dell’università affollati di scritte. Nere o rosso scuro, dipinte con sangre de toro, dicevano. Come tatuaggi riportavano un nome, una data e il simbolo della vittoria, il Vitor. Celebravano il successo di uno studente. Gli insuccessi provocavano il pubblico dileggio. Io non ne ho visto uno. Ma i “veterani” dell’università si dilettavano a narrare trattamenti da tregenda per i malcapitati che fossero stati bocciati. 


Di sera nella Plaza Mayor, la più bella della Spagna, venivano i musici studenti della Tuna, vestiti di velluto e con le insegne della facoltà a cui erano iscritti. Per noi stranieri fu un corso accelerato di argot castigliano per capire dove andavano a parare. Poi, in cambio di vino, intonavano il Cancionero. Quelle canzoni di cui mi sarei ricordata molti anni dopo per inventare ninne nanne che parlavano di clavelitos, di garofanini.


Era Salamanca una città cosmopolita. Era ancora epoca di passaporti alla frontiera e di cambio treno al confine con la Francia, per via dello scartamento ferroviario spagnolo più ampio di quello internazionale.  Ma per me Salamanca fu la scoperta del “vasto” mondo. I miei coetanei venivano dalle Americhe e dall’Asia, soprattutto medio oriente, oltre che da tutta l’Europa. Appartenevano a tutti i credi. O anche a nessuno. Avevo 21 anni. E la voglia di cimentarmi con princìpi, come l’autodeterminazione, che per noi ragazze del sud non erano scontati. Certamente non in quegli anni. In autunno potei frequentare un corso accademico di Filología hispánica solo grazie alle sovvenzioni dell’Ambasciata di Spagna in Italia e al sostegno della mia facoltà a Palermo. Non solo studi nelle aule e nei chiostri dove ancora riecheggiavano le dispute sull’opportunità della rotta atlantica di Colombo verso le “Indie” e l’anatema di Unamuno contro il franchismo: “Vincere non è convincere”. Coi professori peregrinammo per il cuore mistico della Spagna sulle tracce di San Juan de la Cruz e di Santa Teresa de Jesús. Camminammo per i Campos de Castilla di Machado e per le rive del Duero. Osservammo le facciate romaniche di Soria e lo splendore gotico delle cattedrali di Burgos e León. La bellezza della provincia spagnola era intatta. A Burgos la gente recitava ancora a memoria il Poema del mio Cid, epica medievale sull’eroe della Reconquista contro i musulmani. Fu una lezione sul valore dell’anonimato. Non sarò mai abbastanza grata a Miguel Angel Ochoa, diplomatico e umanista che all’epoca lavorava come consigliere culturale all’Ambasciata a Roma. Comprese la mia fissazione per la Spagna. Assecondandola. 


Due anni dopo, infatti, ero a Madrid dove mi misurai con la dimensione politica della Transizione democratica, iniziata subito dopo la morte di Franco il 20 novembre del 1975. Era l’ottobre del 1978. Le forze dell’intero arco parlamentare lavoravano alla Costituzione. La libertà era nell’aria. Aleggiava lo “spirito del consenso”, la volontà di lasciarsi alle spalle la dittatura più lunga d’Europa e costruire una Spagna nuova. Tutti insieme. Per questo il testo della Costituzione fu sottoposto a referendum popolare prima di essere approvato nel dicembre del ‘78. 


Era un’epoca formidabile. E io ebbi la formidabile fortuna di essere lì. Assieme al viejo profesor Enrique Tierno Galván, che della Costituzione scrisse il preambolo. E ai deputati, diplomatici e docenti universitari che lo attorniavano, chiamati appunto Grupo Tierno. Alcuni dei quali destinati a segnare la storia della Spagna. Di certo a segnare la mia vita. Anche solo con gli inviti ai pranzi e alle cene in famiglia.  Era un gruppo che si era costituito intorno al glorioso Boletín de la Cátedra de Derecho Político dell’Università di Salamanca, la rivista oggetto dei miei studi. Una rivista che, sotto mentite spoglie accademiche e con uso di criptolinguaggio, aveva introdotto nel paese tra il 1954 e il 1964 contenuti proibiti dal franchismo, riallacciando le fila del pensiero progressista ed europeista.


Tierno era emblema della “notte dello scontento” di gran parte dell’accademia spagnola sotto la dittatura. Da cattedratico era stato cacciato dalle università per avere appoggiato le rivendicazioni studentesche del 1965 a Madrid. Poi, dopo la morte di Franco, era stato reintegrato. Nel 1977, con le prime elezioni generali del postfranchismo, era diventato deputato di un partito socialista che lui stesso aveva fondato nel 1968 in clandestinità. Mentre il Partido Socialista Obrero Español era in esilio in Francia. I giovani leader dello storico Psoe non amavano el viejo profesor, la sua autorevolezza, la sua popolarità. Finì che i socialisti tiernistas dovettero confluire nel Psoe, con Tierno con la medaglietta di presidente onorario. Amavano tanto don Enrique nel Psoe che lo chiamavano “vipera con cataratte”, copyright di Alfonso Guerra, numero due del partito. Il riferimento era agli occhiali spessi come fondi di bottiglia che Tierno Galván indossava sull’immancabile doppiopetto grigio da viejo profesor. Un’immagine su cui lui giocava molto. Consapevole, ironico, colto come nessun altro. L’unico professore che io abbia frequentato capace di parlare e scrivere allo stesso identico modo. Non si scomponeva mai. Una volta successe che Susana Estrada, attrice e sex symbol degli anni Settanta, a cui Tierno doveva consegnare un premio, si denudò il seno sul palco. Lui non mosse ciglio e di rimando: “Mica prenderà un raffreddore?”.


Andavo ogni mattina nel suo studio in calle Marqués de Urquijo, in una delle zone più verdi di Madrid, vicino al Parque del Oeste con i suoi roseti. L’appartamento era inattuale come Tierno. Come a Tierno piaceva mostrarsi. Zeppo di mobili e soprattutto di libri. Molti li aveva scritti proprio lui, Don Enrique. Saggi di diritto e di sociologia, monografie sul romanzo storico e sulla narrativa picaresca del Siglo de Oro. Alcuni anticipavano, e di molto, l’attualità come Desde el espectáculo a la trivialización del 1961 e Anatomía de la conspiración del 1962. Don Enrique mi regalò molti testi suoi. Era sempre cerimonioso come un hidalgo del passato. Ma lasciava che dagli occhiali dardeggiassero lampi scanzonati quando era con me e con Secundino González, uno studente della Complutense mio coetaneo che allora si prestava a fargli da autista e che oggi insegna diritto in Messico. Eravamo i più giovani a frequentare lo studio di Tierno. Secundino era delle Canarie, per cui veniva chiamato Guanche come i primi abitanti delle isole. Io ero allora l’unica italiana della cerchia. L’unica siciliana. Per questo Tierno mi affidò il compito di portare Leonardo Sciascia a Madrid. Cosa che si concretizzò nel 1982 e che fu un’esperienza tale da meritare una pagina a sé stante. 


Talvolta Tierno invitava Guanche e me a fare colazione al bar. Era un antesignano anche nei gusti. In Spagna si beveva caffè o d’inverno chocolate negro, bevanda nazionale dai tempi della scoperta delle Americhe. E lui ci consigliava il tè per le sue proprietà antitumorali. 
Lo studio di Tierno era un porto di mare. Si preparavano le elezioni municipali della primavera del 1979, le prime del dopo Franco, quando Don Enrique divenne il primo sindaco socialista di Madrid. Nonostante il Psoe. Che poco dopo lo espulse. Tierno ironizzò: “Dio non abbandona mai un buon marxista”. E si dedicò a modernizzare la città. Nei luoghi simbolo e nella società. Fu la Movida di Madrid, autentica esplosione di energia nella musica e nelle arti. Fu allora che vennero a galla culture sommerse sotto la coltre di quarant’anni di franchismo. La Movida cambiò il volto della capitale. Con una data di inizio ben precisa, il concerto che si tenne al Politécnico nel febbraio 1980. Tierno non mancava mai a una fiesta. Infaticabile e un po’ surreale nel contrasto tra il suo doppiopetto grigio, fuori moda pure nel mondo istituzionale, e la gioventù colorata che interpellava dal palco. Rockeros, li chiamava. Rivolgendosi a ciascuno con Usted, pronome di cortesia già desueto. 


Grazie a Tierno trovai posto in un Colegio Mayor molto ambito. Costava meno perché non includeva i pasti. Era un’oasi verde di fiori al centro di Madrid. E aveva una storia di emancipazione femminile unica in Europa. Era lo stesso luogo in cui María de Maeztu aveva fondato nel 1915 la Residencia de Señoritas per dare alle ragazze di provincia la possibilità di accedere all’istruzione universitaria. Con l’obiettivo di favorire la partecipazione delle donne alla vita culturale, politica ed economica del paese. L’esperienza fu bruscamente interrotta nel 1936 dallo scoppio della Guerra civile. Ma vent’anni di attività della Residencia non si poterono cancellare. Molte delle ragazze che lì si erano formate erano già entrate a far parte della élite professionale della Spagna. 


Ogni volta che sono a Madrid non manco mai di passare da quella palazzina liberty in calle Fortuny, oggi sede della Fondazione Ortega-Marañón. E mi sento sempre a casa.

 

 

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