Biennale di Venezia - foto LaPresse

Gli indifferenti

Alla Biennale di Venezia il padiglione di Israele è chiuso, ma nessuno ne parla più

Francesco Bonami

Il padiglione dello stato ebraico rimarrà chiuso finché a Gaza la situazione non cambierà. Ma ora che la guerra non solo continua, ma peggiora, il pubblico non può vedere e apprezzare il grande messaggio di emancipazione femminile che "Motherland" vorrebbe portare al mondo

C’è un ostaggio, certo non paragonabile a quelli umani, di cui nessuno parla più: il padiglione d’Israele nei giardini della Biennale di Venezia. Quando la Biennale di arti visive inaugurò ad aprile, tutti i padiglioni nazionali aprirono con feste e festini. Ruth Patir, l’artista che rappresenta Israele, e le due curatrici della sua mostra, Mira Lapidot e Tamar Margalit, decisero coraggiosamente, saggiamente od obbligatoriamente, dipende dai punti di vista e dalle ideologie, di non aprire il padiglione finché la situazione non fosse cambiata. E quando parlavano di situazione non intendevano solo quella degli ostaggi ma anche quella di Gaza. La situazione non solo non è cambiata ma è peggiorata e il padiglione d’Israele rimane chiuso con dentro una mostra e un lavoro importante “Motherland”, madre terra, che non parla d’Israele o degli ebrei ma della condizione femminile laddove, e le culture e i posti sono tanti e troppi, la donna come la madre terra è ancora considerata fabbrica di umani e non persona.
 

Nella libera e democratica North Carolina chi abortisce rischia di beccarsi trent’anni di galera e c’è chi proporrebbe la pena di morte. L’uomo che usa il profilattico non credo sia soggetto a sanzioni penali. Ruth Patir parla a modo suo pure di questo, anche da un punto di vista personale. Privata, per un’operazione, del sistema riproduttivo, le fu suggerito, intimato, di congelare prima gli ovuli per salvaguardare la fecondità della propria nazione e la guerra demografica con i musulmani. Una donna non fertile, in molti posti vale quanto il due di briscola. Poco importano le varie Harris, Schlein, Meloni o Scheinbaum del caso. A Kabul hanno appena proibito alle donne di cantare, anche in casa. Di questo l’installazione dell’artista israeliana, partendo dai miti della fertilità paleolitici, vorrebbe parlare, nemmeno cantare, ma ha scelto di non farlo, autocensurandosi prima che lo facessero altri. Ma di questa scelta nessuno parla più. Figuriamoci apprezzarla.
 

Nessuno si azzarda a chiedere che il padiglione trovi un modo per essere riaperto. Perché il padiglione israeliano non è quello che c’è dentro. Il Padiglione è Gaza. Fine della discussione. C’è chi, e non sono solo i classici sospetti, se potesse lo tirerebbero giù. Ci provarono un inverno degli anni 80 con una bomba. Vorrebbero tirarlo giù alla maniera di Hamas, per principio ma più che altro per ipocrisia. Infatti non c’è una delle nazioni presenti alla Biennale, di quelle che hanno giustamente riconosciuto l’autodeterminazione palestinese e il diritto ad avere un proprio stato, tipo la Norvegia, che abbia detto “Palestinesi, prendetevi il nostro padiglione”. Nel mondo dell’arte tutto ha un limite. Autoescludersi in favore di altri non è una buona strategia.
 

Lo sanno bene proprio Patir, Lapidot e Margalit, la cui decisione è finita nel dimenticatoio. Atto quasi dovuto. Non credo che se l’artista selezionato per il padiglione degli Stati Uniti decidesse di tenerlo chiuso il dipartimento di stato americano, responsabile del padiglione, glielo consentirebbe. Un ambasciatore non può chiudere un’ambasciata per solidarietà e protesta quando gli gira. I padiglioni a Venezia sono delle vere e proprie ambasciate culturali. Le tre israeliane lo hanno fatto e il governo non ha detto nulla. Forse se ne sono pentite. L’eroismo e la coerenza in cultura pagano poco anzi sono assolutamente controproducenti. Fra dire e fregarsene non c’è differenza, fra fare e non fare molta

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