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un'indagine

Gli italiani continuano a leggere poco

Marco Gambaro

La corsa all’acquisto dei testi scolastici (un quarto del mercato librario) e le altre letture che arrancano, nonostante la proliferazione dei titoli.  La “varia” arrivata in ritardo, il digitale (che non fa troppo male alla carta)

Come ogni anno all’apertura delle scuole i riflettori si accendono sull’editoria scolastica, un segmento per il resto dell’anno un po’ in ombra nonostante rappresenti, con quasi 800 milioni di spesa annua, circa un quarto del mercato librario e sia uno dei settori più profittevoli: lavorando su poco più di 4 mila titoli, ha tirature mediamente più elevate e i prezzi a pagina sono un po’ più alti rispetto agli altri libri. Per gli editori questo riflette costi più elevati per il maggior lavoro redazionale, la stampa in parte a colori e gli apparati digitali. Si tratta per il 90 per cento di libri tradizionali di carta con un codice di accesso a materiali aggiuntivi online. La possibilità di usare materiale esclusivamente digitale, che pure viene reso disponibile in seguito a una specifica regolamentazione, non è stata apprezzata troppo dagli studenti.

 

I libri scolastici costano più cari degli altri perché il potere di mercato degli editori è maggiore, visto che tre gruppi controllano circa il 70 per cento del mercato e perché il prezzo non riesce a funzionare come segnale. C’è una netta separazione tra chi decide l’acquisto (i professori), chi paga (i genitori salvo nelle elementari) e chi usa il prodotto (gli studenti). Una volta che il libro viene adottato quel mercato diventa di fatto un monopolio, per l’assenza di prodotti sostitutivi, e chi decide le adozioni non necessariamente è sensibile al prezzo. 

 

In passato la concorrenza dell’usato agiva in parte come calmiere verso l’aumento dei prezzi, ma oggi la quota dell’usato è inesistente nelle elementari e al massimo del 20-25 per cento in medie e superiori, ma solo negli ultimi anni del ciclo di vita del libro. Gli editori infatti mettono in atto politiche frequenti di innovazione del prodotto, anche per seguire le evoluzioni rapide in molte materie, e arricchiscono i materiali complementari online, abbassando, nell’insieme, il grado di sostituibilità dei libri usati.

 

In altri paesi hanno ridotto il prezzo dei libri facendoli comprare dalle scuole in modo centralizzato, evitando in parte i costi di distribuzione e aumentando il potere contrattuale dei clienti. In Italia i librai si sono opposti fieramente ottenendo un disimpegno delle scuole dall’acquisto dei libri, anche come forma di sostegno pubblico alle librerie per far loro conquistare nuovi clienti (ne avrebbero tanto bisogno). L’idea avrebbe funzionato se le scuole avessero deciso le adozioni nella primavera precedente e gli acquisti di libri si fossero distribuiti su diversi mesi, dando occasione alle famiglie di curiosare nelle librerie e magari di prendere qualche libro non scolastico. Anche se le adozioni sono decise entro giugno, ogni supplente, anche nominato a ottobre come spesso accade, ha il diritto (per mantenere la libertà di insegnamento) di scegliere il libro che preferisce. Di conseguenza le famiglie aspettano l’inizio dell’anno scolastico per procurarsi i libri e gli acquisti si concentrano in poche settimane. Le librerie devono organizzarsi con reparti dedicati con grandi file, quindi gli effetti di spillover e creazione di nuovi clienti per le librerie sono minimi. In più, ormai parte rilevante degli acquisti di scolastica avviene online. Risultati: prezzi più alti, nessun effetto benefico di allargamento della domanda per le librerie, corse all’ultimo momento per le famiglie. Come talvolta accade, non tutte le politiche pubbliche riescono col buco.

 

L’editoria ha molte particolarità economiche che la rendono un settore complicato sia nel funzionamento che nelle politiche pubbliche di supporto. L’informazione contenuta in un libro è un bene pubblico con le caratteristiche tipiche di non rivalità del consumo (se leggo o ascolto un’informazione non si riduce la disponibilità per gli altri) e di non escludibilità (non è semplice escludere dal consumo chi non ha pagato). Quindi è soggetta a fallimenti del mercato. L’editoria libraria, storicamente la prima industria culturale, ha risolto questo problema incorporando l’informazione bene pubblico in un prodotto fisico (carta inchiostro e rilegatura) che invece si comporta come un bene normale: è rivale nel consumo ed è escludibile, per cui è possibile organizzarci un mercato.
Ogni libro è un prodotto nuovo di cui l’editore non conosce la domanda a priori e di cui sia l’editore sia il consumatore non conoscono il valore. In questo senso è un experience good, di cui non è possibile verificare la qualità prima del consumo, che però generalmente viene letto una sola volta. Il consumatore fronteggia un rischio legato sia al prezzo sia al tempo che richiederà la lettura. Si tratta di una caratteristica simile a molti prodotti culturali, ma nel cinema la situazione è più critica per via dei costi di produzione molto elevati, mentre nella musica questo aspetto è mitigato dal consumo ripetuto dei brani che caratterizza il settore.
Naturalmente gli editori bravi per ridurre il rischio lavorano con un portafoglio di titoli e generi dove la variabilità delle vendite è più ridotta (e quindi più prevedibile) rispetto a quella del singolo titolo. Quando il mercato e la domanda diventano più complessi aumentano i prodotti per soddisfare le diverse nicchie possibili. In Italia vi è stata una crescita costante dei titoli negli ultimi anni passando dai 30-40 mila nuovi titoli negli anni Novanta a 60 mila nel 2010 per arrivare a oltre 80 mila nel 2023, comprese le riedizioni. Allo stesso modo crescono i libri in commercio dai 250 mila alla fine anni Novanta a 1,4 milioni nel 2023. Insomma vi è un grande aumento della varietà e della possibilità di soddisfare gusti diversi, ma questo ha comportato naturalmente un certo calo delle tirature medie e una minor frequenza di bestseller oltre le 100 mila copie, che erano il volano della redditività dei grandi editori.
Nella “varia”, che con 1,7-1,8 miliardi di euro (fonte Aie) rappresenta il cuore dell’editoria e oltre la metà del fatturato complessivo, c’è un mercato un po’ duale con quattro gruppi editoriali (Mondadori, Gems, Giunti e Feltrinelli) che complessivamente controllano quasi il 55 per cento del mercato, accanto a circa 5 mila editori attivi (che pubblicano o vendono almeno un libro l’anno). La ragione di questa struttura particolare del mercato è data dal fatto che, contemporaneamente, ci sono bassissime barriere all’entrata per cui tanti operatori entrano, mentre esistono economie di scala, soprattutto nella gestione della promozione e della distribuzione per crescere e avere successo.

 

Il gruppo degli editori veri è anche più ridotto perché solo poco più di 500 pubblicano almeno 30 titoli l’anno, probabilmente la soglia minima per un’attività professionale che consenta la remunerazione di 1-2 addetti e solo una cinquantina pubblicano oltre 200 novità all’anno. Nel gruppo che segue i primi quattro convivono realtà molto diverse, piccoli editori, editori indipendenti, aziende medie magari specializzate in particolari nicchie editoriali e naturalmente moltissimi che fanno altro, fondazioni, associazioni, imprese industriali e di servizi che di tanto in tanto pubblicano un libro.
Il numero complessivo degli editori è quasi raddoppiato negli ultimi quindici anni, seguendo la specializzazione dei gusti del pubblico, ma anche per effetto dell’e-commerce che ha permesso ai piccoli editori di raggiungere strati di pubblico specializzato con servizi di promozione digitali che i canali tradizionali non sarebbero comunque stati in grado di offrire. L’editoria libraria condivide inoltre, con la produzione di vino e la partecipazione a comitati direttivi di Ong, la caratteristica di essere “buen ritiro” per persone che hanno fatto sforzi e avuto successo in altri settori: grossisti, dirigenti, startupper, medie imprese meccaniche, ereditieri e manager che si ritagliano una collocazione sociale con una piccola casa editrice specializzata e, loro sperano, abbastanza prestigiosa.
Il digitale è arrivato in maniera soffice in questo settore, a differenza dello tsunami che ha provocato nell’editoria giornalistica. Il cambiamento maggiore è stato quello dell’e-commerce che ha risolto il problema della ricerca infruttuosa di libri. Infatti con così tanti titoli la possibilità di non trovare un libro, anche in una libreria grande, è sempre stata molto elevata. Allo stesso tempo le librerie, grandi e piccole, hanno sempre avuto quasi metà dei titoli esposti che vendevano meno di una copia l’anno, uno spreco di spazio e di risorse. Non bisogna dimenticare che per Amazon tutto è iniziato con la vendita di libri.
Per quanto riguarda i libri elettronici, la carta per il momento sembra salva. Mentre alcuni anni fa, anche sulla scorta di quanto succedeva nell’editoria giornalistica, diversi osservatori paventavano una completa trasformazione del settore con una marginalizzazione del libro di carta, in realtà l’ebook è rimasto confinato in una nicchia per alcuni usi specifici (viaggi, caratteri grandi, e preferenze convinte). In Italia la loro quota di mercato a valore è stabilizzata attorno all’8 per cento della varia che è la metà della quota negli Stati Uniti, ma non è lontana dal peso dell’ebook in molti paesi europei.  
Un problema rilevante in Italia, sia per l’editoria sia per la società, è lo scarso livello di lettura rispetto agli altri paesi sviluppati. Secondo Eurostat e Istat oltre metà degli italiani non legge libri, dato stabile da 30 anni. Pesano il minor numero di diplomati e laureati e la scarsa attitudine alla lettura della classe dirigente.

Non tutti sono d’accordo. L’associazione degli editori Aie commissiona una rilevazione che registra nel 2023 un 74 per cento di lettori sulla popolazione, con un avanzamento di 6 punti rispetto a due anni prima. La differenza può derivare da diversi fattori: un perimetro di lettura più largo che include libri non finiti e i fumetti; le interviste sono online e selezionano quindi chi ha una propensione alla lettura maggiore; l’esclusione degli over 75 che hanno tassi di lettura più ridotti. Resta il fatto che i dati di consumo di beni aspirazionali costruiti attraverso dichiarazioni degli intervistati vanno presi con qualche cautela. 
Il vantaggio dei dati Istat ed Eurostat è che consentono comparazioni con altri paesi e analisi nel tempo perché in ambedue i casi la metodologia di rilevazione e la definizione di lettura sono costanti.
In Europa solo a Cipro e in Romania si legge un po’ meno che in Italia. In Svizzera, Norvegia e Danimarca si legge il doppio che da noi. In Italia pesano, come nella media europea, i forti lettori che leggono oltre 10 libri l’anno. Ce ne sono più che in Spagna, Grecia, Bulgaria, ma meno che in Polonia Irlanda o Danimarca. Il nostro non è dunque un mercato di forti lettori, come alcuni continuano a credere. In Europa, e anche in Italia i giovani mostrano un’intensità di lettura superiore a quella degli over 65. Le donne leggono più degli uomini, ma in Italia un po’ meno che nella media europea. In Italia mancano un po’ i medi lettori (5-10 libri l’anno) che sono l’11 per cento della popolazione contro la media europea del 15 per cento; sono inferiori a quasi tutti i paesi: Polonia Croazia e Lituania al 20 per cento, Francia al 16 per cento, Danimarca al 17 per cento e Svizzera al 22 per cento. Quello che manca sul serio sono i lettori deboli (meno di 5 libri l’anno), che in Italia sono il 19 per cento della popolazione con più di 16 anni contro una media europea del 32 per cento, ma con Danimarca e Norvegia al 43 per cento, Grecia, Estonia, Finlandia e Svezia al 40 per cento. Questa scarsità di lettori deboli potrebbe essere collegata al perimetro della lettura. In un lavoro che ho fatto diversi anni fa, emergeva che la lettura di letteratura e saggistica seria è analoga a quella di altri grandi paesi europei, la differenza significativa si trova nei cosiddetti libri utili (bricolage e corsi di Excel) che in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna sono più diffusi che da noi. Potrebbero esserci problemi di prodotto (libri pensati prevalentemente per lettori forti). La stabilità dei dati nel tempo suggerisce che le motivazioni alla bassa lettura sono da cercarsi in fenomeni di lungo periodo. 
Naturalmente lettura e acquisto dei libri sono due cose distinte e leggermente sfasate. Si acquistano libri per leggerli subito, in seguito e per regalarli: a novembre e dicembre si vende un quarto di tutti i libri dell’anno. Dall’altra parte si leggono libri acquistati poco prima, libri presi dagli scaffali di casa, libri imprestati da amici e partenti e libri presi in prestito in biblioteca. Anche considerando i dati prepandemia, solo il 15 per cento degli italiani andava in biblioteca almeno una volta l’anno (e molti solo per studiare) contro una percentuale mediamente doppia di molti paesi europei. Proprio questa bassa performance delle biblioteche italiane potrebbe contribuire a spiegare il differenziale di lettura con gli altri paesi.
Come mai in Italia si leggono pochi libri? Le dinamiche di lettura sono spesso di lungo periodo, come in molti consumi culturali. La lettura, specie dei giovani, è correlata con il numero di libri in casa che a sua volta è un indicatore della lettura dei genitori. Il problema dunque è complesso, ma si possono indicare quattro ragioni principali: scolarità, classe dirigente, grandi opere, librai. 
La bassa scolarità è una ragione importante. Si considera che un diploma medio superiore dia familiarità con la lettura. Ma in Italia abbiamo un gap di scolarità persistente che si riduce solo lentamente. I diplomati nella fascia 25-64 anni sono il 63 per cento della popolazione, lontani dall’84 per cento di Francia e Germania o dal 79 per cento media europea.
In molti paesi la lettura è trainata da imprenditori, dirigenti e professioni liberali, insomma dalla classe dirigente, mentre in Italia queste categorie leggono meno di impiegati e quadri, quindi la nostra classe dirigente nega alla lettura il carattere di bene aspirazionale. Questo avviene in parte per la prevalenza di piccole imprese, in parte per l’importanza delle relazioni nelle assunzioni e gli avanzamenti di carriera, che rendono meno utile l’aggiornamento professionale e la competenza.
Le altre due ragioni hanno radici nel passato e indicano dinamiche di lungo periodo. Le grandi opere e le enciclopedie sono praticamente scomparse, ma per 3-4 decenni hanno rappresentato metà del mercato librario. Erano vendute con reti dirette a lettori deboli che pagavano a rate e un acquisto saturava per anni un possibile budget di libri, escludendo quindi gli editori concorrenti. Fossero stati gialli o raccolte di romanzi popolari almeno avrebbero sviluppato la lettura, ma spesso erano i classici della letteratura italiana dal Trecento al Seicento, o improbabili enciclopedie che hanno fatto polvere nei salotti di milioni di famiglie italiane (non tutte naturalmente), allontanando dalla lettura anche le generazioni successive.
Fino agli anni Novanta le librerie vendevano pochissima letteratura leggera (gialli, horror, fantascienza e rosa) che in tutto il modo costituivano una quota rilevante della lettura, soprattutto per i lettori deboli, mentre questi generi erano confinati in edicola con formati da periodici e trattati come letteratura di serie B, dei veri e propri non-libri. Il comportamento dei librai rifletteva una concezione elitaria e snobistica dei libri che caratterizzava gran parte degli intellettuali italiani. Certo, c’erano Fruttero & Lucentini e Asimov, ma mentre le librerie straniere dedicavano alla letteratura leggera anche un terzo dello spazio, da noi questi generi erano confinati in mezzo scaffale. Anche qui l’effetto è stato quello di allontanare dalle librerie fette importanti di popolazione. 
Da un modello econometrico sulla lettura che ho realizzato emerge come la lettura di libri sia correlata positivamente, e in modo statisticamente significativo, con il livello di istruzione, il numero di libri presenti in casa, l’uso di internet e del pc, la pratica sportiva, l’ascolto della radio, la frequentazione di luoghi di culto e l’impegno sociale, mentre è correlata negativamente con il tempo speso a guardare tv e il numero di bambini in famiglia.
Tra le ragioni della bassa lettura non includerei il digitale, perché la lettura è stabile e sembra essere più complementare e sostitutiva con l’online, né il prezzo, perché non ci sono indicazioni di differenziali di prezzo significativi rispetto agli altri paesi europei. Naturalmente il prezzo è sempre un fattore importante, come dimostra la storica esperienza dei Millelire di stampa alternativa, dove gli stessi titoli, a prezzo supereconomico vendevano 3-4 volte tanto rispetto ai formati (e prezzi) tradizionali.

 

Tra le politiche pubbliche che riguardano l’editoria ci sono l’Iva ridotta, i bonus, la promozione per la lettura e la limitazione degli sconti nella distribuzione.
L’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano l’anno scorso ha cancellato il Bonus cultura per i 18enni  introdotto dal governo Renzi nel 2016, sostituendolo con un Bonus merito, per le maturità con voto 100, e con una carta cultura giovani per i 18enni di famiglie con Isee inferiore a 35 mila euro. Quando si distribuiscono soldi l’effetto è comunque un po’ positivo. Il problema semmai è disegnare la misura in modo che raggiunga determinati obiettivi che andrebbero annunciati pubblicamente prima, come a bridge. Non mi sembra inoltre che sia mai stata fatta un’analisi seria degli impatti di questi bonus, né ex ante né ex post.
Le politiche di promozione della lettura sono gestite in Italia dal “Centro per il libro e la lettura”, impegnato in molte attività di cui alcune di lungo periodo in collaborazione con le scuole.
La limitazione degli sconti è invece più controversa. Introdotta con la legge Levi del 2011 fissava lo sconto massimo delle librerie, anche digitali, al 15 per cento con la possibilità per gli editori di fare sconti sul proprio catalogo fino al 25 per cento per massimo un mese l’anno. Nel 2020 è stata approvata una legge sulla lettura che riduce gli sconti massimi nelle librerie al 5 per cento e quelli degli editori al 20 per cento. Della fissazione del prezzo dei libri e della riduzione della concorrenza commerciale si discute in Europa da molti anni e leggi simili esistono in diversi paesi. Il libro è uno dei pochissimi prodotti dove è consentito ai produttori di fissare il prezzo di vendita al dettaglio. Normalmente si tratta di una pratica assolutamente vietata: Barilla non potrebbe mai decidere il prezzo a cui Esselunga vende gli spaghetti. La limitazione degli sconti ha lo scopo di abbassare la concorrenza tra diversi punti vendita, in teoria per sviluppare i servizi e per proteggere le librerie più piccole dalla concorrenza delle catene e dei negozi digitali. L’idea è che se le librerie non possono abbassare i prezzi faranno più servizi prevendita per attrarre clienti. Inoltre, in questo modo si sovvenzionano piccole librerie che in molte aree costituiscono un presidio utile a diffondere i prodotti culturali.

 

D’altra parte la limitazione della concorrenza commerciale ha anche controindicazioni. Queste le principali ragioni dei detrattori: da un lato impedisce, anche alle librerie, di vendere a prezzi più bassi i titoli che richiedono meno servizi commerciali, tipicamente i best seller. Gli effetti distributivi, come spesso capita, sono curiosi: i lettori deboli, spesso più poveri e meno scolarizzati finanziano in questo modo i servizi di prevendita e consulenza utilizzati prevalentemente dai lettori forti (spesso più ricchi e più scolarizzati). In secondo luogo vendendo a prezzi mediamente più bassi si aumentano le quantità vendute, come impara qualsiasi principiante di economia. In terzo luogo la limitazione della concorrenza sovvenziona sì piccole librerie preziose, ma rende più difficile l’evoluzione della rete di vendita e tiene in vita strutture inefficienti e forse meno adatte a fornire servizi adeguati ai lettori.
Come si vede, si tratta di una misura controversa non semplice da valutare. Nel dibattito italiano sono a favore piccole librerie e piccoli editori, mentre sono moderatamente contrari i grandi editori, le catene di librerie e la grande distribuzione, che infatti dal 2020 ha ridotto lo spazio per i libri e la sua quota sul fatturato del settore, oltre naturalmente ad Amazon contro cui in effetti era indirizzata la legge.
In un paper non ancora pubblicato Genakos, Pagliero, Lorien e Valletti analizzano l’intero universo dei libri venduti in Italia prima e dopo la riduzione dello sconto, usando la Svizzera Italiana come controllo, e trovano che l’effetto è un innalzamento dei prezzi senza che ci sia una variazione significativa dei nuovi titoli pubblicati. Per contro la riduzione dello sconto aumenta considerevolmente la varietà dei titoli acquistati soprattutto nelle librerie indipendenti, premiando piccoli e medi editori.


“Come si vede la situazione è molto complessa. L’editoria libraria ha retto bene l’urto del digitale, ma allo stesso tempo sconta lo scarso livello di lettura che si registra in Italia e che richiede interventi con un orizzonte di lungo periodo. Le politiche pubbliche dovrebbero sempre partire da obiettivi ben specificati e una comprensione profonda del funzionamento di un settore. Occorre inoltre introdurre una cultura della misurazione degli interventi pubblici che è anche la condizione per fare quelle azioni di aggiustamento e fine tuning che possono migliorare l’intervento pubblico e sono necessarie in industrie, come quelle culturali, dove la funzione di produzione e le determinanti del successo non sono definite con precisione”.

Marco Gambaro
Università Statale di Milano
Twitter/X: @MaGambaro

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