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Ricordare il caso Dreyfus mentre l'antisemitismo torna a soffiare forte in Europa

Paolo D'Angelo

L'ufficiale francese di religione ebraica fu processato per alto tradimento dal tribunale militare. Dopo l'intervento di intellettuali e scrittori, tutte le accuse caddero. Un libro

In un momento in cui l’antisemitismo torna ad affacciarsi nei paesi occidentali con una virulenza che non avremmo più creduto possibile e in sedi dove non lo avremmo mai immaginato, un nuovo libro sul "Caso Dreyfus" giunge più che tempestivo. Quell’Affaire, che vide condannato per spionaggio e alto tradimento un ufficiale, individuato come colpevole e sacrificato come vittima ideale innanzitutto proprio per il fatto di essere ebreo, resta infatti un episodio sconcertante e dirimente nella storia dell’antisemitismo moderno. Non a caso Hanna Arendt, nel suo "Le origini del totalitarismo", dedicò all’Affare Dreyfus un capitolo a sé, considerandolo determinante per gli sviluppi ben più tragici che la persecuzione antiebraica avrebbe preso del secolo Ventesimo, ma anche, in senso più lato, per l’affermazione dei regimi totalitari del Novecento. Un paese libero e civile come la Francia, per più di dieci anni, dal 1894 al 1906, vide prendere spazio una campagna di odio contro gli ebrei, additati come nemici della patria e dell’esercito, una campagna nel corso della quale in una parte dell’opinione pubblica tornarono ad aver corso i più ignobili pregiudizi di una tradizione millenaria di diffidenza e di disprezzo.

Certo, si potrebbe pensare che rinarrare ancora una volta, dettagliatamente, una vicenda della quale si conosce ormai ogni piega, che è stata oggetto di centinaia di ricostruzioni storiche, sulla quale è pubblicata una quantità impressionante di documenti, che ha dato materia a decine di romanzi e ad almeno sette opere cinematografiche, (l’ultima è il film di Roman Polanski, “J’Accuse”, del 2019) sia un’impresa temeraria e superflua. Ma "Nel nome di Dreyfus", di Clotilde Bertoni, uscito all’inizio di quest’anno dal Mulino, riesce a smentire pienamente questi timori. Ci riesce, in primo luogo dando vita a una narrazione che, pur addentrandosi si in ogni piega di questa vicenda intricatissima, mantiene un ritmo incalzante e avvince anche se ne conosciamo la fine, quel lieto fine che a Proust sembrò più simile a quello delle fiabe che agli esiti consueti delle nostre esistenze e che fu invece nei fatti un fine solo molto parzialmente lieto, se inizialmente fu necessaria una grazia presidenziale per liberare un uomo che i tribunali continuavano a considerare colpevole, contro ogni evidenza, e se due anni dopo la riabilitazione definitiva Dreyfus venne fatto oggetto di un attentato.

Ma ci riesce soprattutto perché dipana gli aspetti salienti che fanno di questo “affaire” il “caso” per antonomasia, un episodio decisivo nella storia delle democrazie moderne e del ruolo in esse giocato dall’opinione pubblica. A far riconoscere l’innocenza di Dreyfus, tenacemente perseguitato dalle gerarchie di un esercito incapace di ammettere i propri errori, non fu infatti, se non in misura limitatissima, l’azione dei politici, quanto l’impegno dei giornali e degli intellettuali, o meglio di quella parte dei giornali e degli intellettuali che, indignati dai cliché razzisti, dalle macchinazioni e dalle falsità, si schierarono apertamente a favore di Dreyfus e fecero sì che la Francia si dividesse in due fronti contrapposti, più che nei tribunali, nelle pagine a stampa: i dreyfusardi e gli antidreyfusardi. In entrambi i fronti un ruolo di primo piano lo giocarono gli scrittori. Il "J’Accuse" pubblicato da Zola sul quotidiano "L’Aurore" è rimasto emblematico del ruolo pubblico degli intellettuali (una parola che divenne di uso comune proprio in quel frangente), e gli intellettuali continuano ad appropriarsene in mille occasioni, forse per consolarsi del fatto che contano oggi molto meno di allora.

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