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L'esposizione

Helen Frankenthaler, signora dell'astrazione e del “soak-stain”, a Palazzo Strozzi

Francesca Amé

Sulle orme del pittore Jackson Pollock, l'artista americana ha trovato uno stile nuovo chiamato "imbibizione a macchia": il risultato è una pittura traslucida, animata di mille forme dove è possibile scorgere dettagli sempre nuovi

Helen Frankenthaler è nata bene nel 1928, figlia di Alfred, giudice della Corte suprema dello stato di New York, e vissuta ancor meglio: è stata una delle più importanti artiste del Novecento, tra le pochissime a praticare l’astrazione perseguendo ostinatamente una pittura “che la facesse sentire stabile, centrata”, dice al Foglio Douglas Dreishpoon, che ha curato con passione la più completa rassegna mai dedicata in Italia all’artista americana, da domani fino al 26 gennaio a Palazzo Strozzi di Firenze. In un momento in cui della sua arte pare goloso il mercato – da settimana prossima anche Gagosian, nella sua galleria a Roma, propone diciotto opere su carta di grandi dimensioni, figlie della sua ultima produzione – il senso della mostra a Firenze, con il direttore Arturo Galansino sempre attento a bilanciare antico e contemporaneo (nel 2025 è già in agenda una grande mostra su Beato Angelico), sta tutto nel titolo “Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole”.

Che poi non è così vero: Helen Frankenthaler, morta a 83 anni nel 2011, pur sfidando a inizio carriera le convenzioni, ha in seguito codificato un suo stile riconoscibilissimo, e persino inventato una nuova tecnica. Si chiama “soak-stain”, che in italiano si traduce con “imbibizione a macchia” ma il termine dice poco: di fatto, l’artista applicava la vernice diluita orizzontalmente su tele non trattate e distese a terra. Il risultato è un effetto acquerello su larga scala, ottenuto però con pittura a olio: su questa superficie, andava poi ad aggiungere altra vernice con il pennello o con delle spugnette. Il risultato, e l’infilata di dieci sale di Palazzo Strozzi lo dimostra impeccabilmente, è una pittura traslucida, animata di mille forme in cui ciascuno può vedere dettagli sempre nuovi: “Io stesso – confida Dresishpoon – allestendo la mostra mi sono accorto di particolari su varie tele che prima non avevo colto”.

Organizzata in collaborazione con la Helen Frankenthaler Foundation, ente che la stessa artista, con sano pragmatismo, aveva istituito in vita, l’esposizione segue una scansione cronologica e vive dei dialoghi tra le sue opere con quelle di diversi artisti di cui era amica. Definita sbrigativamente la Pollock in gonnella, Frankenthaler è di certo stata ammaliata dalla coreografia del gesto di pittura sgocciolata a terra che aveva visto da giovanissima nello studio-fienile di Pollock a Long Island, ma lo ha declinato a modo suo. La sua via all’astrazione passa per la poesia di colori e geometrie, da scovare sullo sfondo o ai lati dei dipinti: alle rivendicazioni femministe degli anni Sessanta risponde con l’elogio dell’improvvisazione, la potenza dell’intuizione sentimentale, l’intimismo.

Nella galleria newyorchese di Leo Castelli conosce e s’innamora dell’artista Robert Motherwell: nel ’58 si sposano, viaggiano in Europa, diventano amici dei Rothko, David Smith è come un altro fratello per la coppia. Questi fecondi legami sono ben evidenziati nella mostra da confronti diretti: Frankenthaler non ne esce mai solo come “l’unica donna della compagnia”. “Da tutti ha appreso qualcosa, ma a tutti ha dato molto – precisa Dresishpoon –. Con lo stesso Motherwell condivideva l’atelier: il loro fu un matrimonio e un sodalizio artistico piuttosto felice”. Provincetown, in Massachusetts, è il posto del cuore, la cui atmosfera spesso Frankenthaler imprime su tela. Seguono montagne russe esistenziali (Smith muore in un incidente d’auto: la coppia accusa tremendamente la perdita), Frankenthaler, ma non il marito, rappresenta gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del ’66 ed è l’unica donna inclusa nell’epocale mostra “New York Painting and Sculpture” al Met.

Nel ’71 Frankenthaler e Motherwell divorziano: lei sceglie il mare del Connecticut come nuovo luogo dell’anima e da lì, con la saggezza della mezza età, approfondisce lo studio di Tiziano e Rembrandt. E’ sedotta dalla luce e dall’acqua della costa atlantica, temi ricorrenti nella sua produzione. In alcuni paesaggi di questo periodo si intravedono blu cosmici, che paiono preludere a un Altrove, chissà. Gli anni Novanta portano qualche acciacco (difficile dipingere con le tele buttate sul pavimento: si passa allora ad ampi fogli di carta sollevati su cavalletti) e un nuovo amore (Stephen DuBrul che non fa l’artista ma è a capo dell’Exim, la banca di import-export degli Stati Uniti). Helen Frankenthaler approda a una pittura ancor più luminosa, serena, ottimista. “Con il tempo, ci resta il meglio” ha detto, come solo avrebbe potuto chi davvero ha ben vissuto.

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