Corpi nascosti
Il velo pietoso: dalle incisioni secentesche alle sfilate di Madonna
Nasconde e al tempo stesso svela. La preziosa e sensuale inviolabilità femminile, la polemica con l’islam, D&G: storia di un strumento reso obbligatorio dalla religione, riscoperto come accessorio di moda, la cui funzione mascheratrice non fa che aumentare il desiderio
La comparsa della popstar Madonna velata di pizzo nero e incoronata di latta allo show di Dolce&Gabbana, mi rifiuto per ragioni evidenti di definirla apparizione, ha dato il via a un interessante, seppur breve, dibattito mondiale attorno all’appropriatezza del suo look (nessuno fa notizia per più di dodici ore a meno di continuare a ravvivare il feed come Maria Rosaria Boccia con noi tamagotchi social) e alle motivazioni che l’avrebbero spinta a farselo posare sul capo; non ultima, come logico, quella estetica. Esiste un video ufficiale in cui Madonna, in bustier con reggiseno a cono modello Gaultier degli anni “Blonde tour”, che era poi la falsariga di tutta la sfilata di Dolce&Gabbana, viene occultata sotto la mantiglia da uno stuolo di stylist e poi si avvia, a gambe nude e pizzo che dalla testa le scende fino a mezza coscia, verso la passerella, con un curioso effetto di ombrellone chiuso alla brezza del tramonto. Visualizzazioni incalcolabili, duemiladuecentoventotto commenti. Fra gli hater che la esortano a lasciar perdere perché “ormai sei una nonna” e i fan che ribattono di non azzardarsi a criticarla perché “lei è una queen e lo sarà per sempre”, resta l’evidenza che una cosa è esibirsi, ancorché un po’ irrigidite dagli anni, su un palco, a dieci metri minimi di distanza dall’occhio dei fan e comunque in movimento, catch me if you can; un’altra è stare ferma per quindici minuti, con un volto che negli anni ha subito una mutazione quasi genetica, davanti a una passerella illuminata con migliaia di watt e circondata da masse che si sporgono dall’alto pur di inquadrare anche un lembo della mantiglia e poter dire io c’ero.
Fra gli esegeti del velo pietoso, gesto di rispetto per chi soffre e anche per chi guarda e dunque malignità estrema verso la popstar stravolta da una chirurgia molto invasiva, e quelli che, al contrario, domani lo indosso anch’io “e se diventerò famoso come lei mi vestirò solo D&G”, tenderei a sposare la linea della seconda tribù, ma solo perché è chiaro che la nostra cultura non abbia ancora fatto fino in fondo i conti con la storia e il significato profondo del velo, limitandosi a spostare la questione un po’ più in là, come peraltro tende a fare con tutti gli argomenti spinosi. Il velo del pudore come sudario e occultamento della morte e dello scempio, la pietas che si accompagna alla cura e al culto dei morti e che tendiamo ad identificare con la sua massima espressione artistica, cioè la scultura del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino esposto nella cappella Sansevero a Napoli che migliaia di persone visitano ogni giorno in un naturale, assoluto silenzio, ha in fondo poco da spartire con il velo esibito da Madonna, che peraltro tendeva ad avvolgersi nei pizzi anche ai tempi delle sue prime hit da vergine di ritorno. Ce l’hanno molto di più le molte declinazioni artistiche e soprattutto letterarie che dall’Ottocento in poi ne assecondano la nostra visione contemporanea. La storia della letteratura, ma perfino della televisione, è una lunghissima teoria di veli dipinti, strappati, di donne del mistero, di immagini muliebri affioranti da nuvole di seta e di garza, talvolta in versione revenant, fantasma, così come Schopenhauer conia l’immagine del “velo di Maya” per raccogliere i concetti metafisici propri della religione e della cultura induista ripresi dalla filosofia del suo tempo; un velo che, come quello di Iside, di natura illusoria, separa gli individui, impedendo loro di giungere alla vera conoscenza. Sono i dipinti di Ingres, l’orientalismo, i romanzi di Nerval e, nel Novecento, i turbamenti e i tradimenti coniugali di William Somerset Maugham e le battaglie femministe perché nessuna mai più debba indossare un velo senza autodeterminazione e invece va sempre peggio.
E qui arriviamo al punto e ai molti non detti che ci impediscono di prendere una posizione chiara e, soprattutto, unitaria, sul tema. Nonostante la nostra presunta superiorità laica rispetto all’islam che va rafforzando, se possibile, le restrizioni nei riguardi del genere femminile e sulle opportunità di studio e di lavoro delle donne, l’uso del capo coperto è disgraziatamente cosa nostra, giudaico-cristiana, basti vedere la rappresentazione della religione cristiana come di una donna velata che l’incisore Cesare Ripa fa nel Rinascimento. Un uso che abbiamo esportato e reso attraente e appropriato per il terzo monoteismo, e che abbiamo progressivamente dismesso e spogliato dai suoi valori e intenti originari per ammantarlo di converso di sensualità. Il mistero della fede è diventato il mistero della femminilità e del sesso femminile, al punto che ancora oggi la “velatura” è una delle caratteristiche che associamo non solo alla seduzione, ma alla qualità e all’appropriatezza: le calze velate, il velo di cipria, la velatura dei dipinti più riusciti. Oltre alle fattezze di una signora ultrasessantenne incapace di scendere a patti con l’evolversi delle stagioni, il velo copre, ma al tempo stesso svela. E questo lo rende sommamente intrigante. “Le donne escono esclusivamente velate, e il loro luogo d’incontro abituale è un rifugio inviolabile: i bagni”, scrive nel 1852, da una stazione di soggiorno nei pressi di Algeri, il pittore Eugène Fromentin.
In quell’anno che segna la nascita del Secondo Impero, la preziosa e sensuale inviolabilità femminile, suggerita e in un certo senso garantita dal velo, come l’involucro intatto di una caramella gustosa, si è già trasformata in un’ossessione per i mariti e gli amanti delle donne occidentali che invece, da molto tempo, hanno sostituito il manto con il cappello, vessillo di frivolezza e vanità, per il quale esiste un mestiere dedicato, la modista, manipolatrice di nastri e velette, che sarà anche la prima occupazione di Coco Chanel. Resta in quegli anni ancora in uso, fra le donne del popolo, il foulard, come se ne trova traccia nel parlato comune francese (“porter le foulard” è, o per meglio dire era, sinonimo di bassa estrazione sociale) o in quel compendio di ogni costume ottocentesco alto e basso che è il “Gattopardo”, nella figura di Bastiana, la moglie di Calogero Sedara, che si reca alla messa all’alba, il capo coperto, come in una di quelle immagini stereotipate e vetuste dell’Italia rurale del sud che ormai bazzicano non solo i Dolce&Gabbana, ma perfino registi internazionali e blasonati come Nicolas Winding Refn benché, bisogna ammetterlo, di questo passato si trovino ancora segni evidenti: se voleste entrare nella parrocchia di San Michele Arcangelo, a Città Sant’Angelo, in Abruzzo, vi trovereste in bella evidenza la placca “le donne non possono entrare in chiesa col capo scoperto”, smaltata a caldo e dunque databile agli anni Trenta del Novecento, ultimo portato di una tradizione per la quale le donne romane perbene coprivano il capo e raccoglievano i capelli, mentre alle prostitute era imposto di mostrarsi in pubblico senza alcuna protezione sul capo, come la merce che, in effetti, erano.
Questa visibilità obbligatoria veniva risparmiata alle donne “oneste”, definizione rimasta fino a poco tempo fa, e che è tuttora l’argomento principale delle musulmane di seconda o terza generazione che vivono in occidente e rifiutano di levarsi l’hijab, definizione che, peraltro, non indica espressamente il velo, ma qualsiasi barriera di separazione venga posta davanti a un essere umano, o a un oggetto, per sottrarlo alla vista o isolarlo e che finisce per rappresentare un manifesto: non vi mostrerò tutto quello che potreste essere interessati a vedere. Il velo, privilegio delle donne della romanità imperiale affluente che li facevano arrivare dal Medio ed Estremo Oriente per la rabbia dei censori, era simbolo di dignità e pudore, dunque di maggior pregio della persona che avvolgeva, in un contesto sociale fortemente codificato, secondo quanto si legge nella prima lettera di san Paolo ai Corinzi e in particolare nel passaggio, invero un po’ oscuro, nel quale l’apostolo esorta le donne cristiane della città a rispettare la consuetudine del velo, quando intendano prendere la parola in assemblee di carattere culturale: “Ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra”.
Ma se la nozione della pudicizia legata al velo in occidente è andata perdendosi nei secoli e se ne trova traccia solo nell’abito da sposa, è rimasta invece quella della preziosità. La donna a capo e, meglio ancora, volto coperto, è un topos erotico così potente che Gerard de Nerval la mette al centro del suo “Voyage en Orient”; per gli esploratori del bello e dell’esotico, quei lembi di stoffa non possono infatti che nascondere bellezze eccezionali; lo stesso Fromentin ammette di essersi innamorato di una voce; non diversamente, peraltro, dal re della “Scortecata” di Giambattista Basile che si innamora del dito immacolato della vecchia megera nascosta dietro la porta chiusa della catapecchia dove vive con la sorella e che rappresenta, come il portone dell’harem, o le grate di certe finestre mozarabe di Granada, il velo inviolabilissimo e per questo ancor più tentatore.
“Si mascherano per essere viste meglio”, scriveva un anonimo incisore del Seicento sotto l’immagine di una giovane donna con maschera e velo a spasso per Londra, dove per un buon ventennio andò molto di moda una sorta di bautta per uscire di casa il pomeriggio, dimostrando di aver intuito l’alterità del velo, il suo significato in fondo obliquo e, in fondo, anche le furberie a cui si presta. Le descrive benissimo nel secondo decennio del Settecento Lady Mary Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Istanbul e ottima scrittrice laica di fatti e modelli dell’Oriente musulmano, quando nelle sue lettere svela i magheggi delle donne locali per affrancarsi dal controllo ossessivo dei mariti, con metodi che sembrano prefigurare la trama del “Così fan tutte” mozartiano: “Ora che conosco un po’ i costumi delle donne turche, non posso impedirmi di ammirare la discrezione esemplare o l’estrema stupidità di tutti quelli che le hanno descritte. E’ facile rendersi conto che esse godono di una libertà a noi negata. A nessuna donna di un certo rango sociale è permesso di andare per la strada senza indossare due mussoline: una che ne nasconde la pettinatura e le scende fino alla vita, e una seconda che ne copre interamente le forme. Potete immaginare come, con un simile travestimento, è impossibile al più geloso dei mariti riconoscere la propria moglie quando la incontra. Questa mascherata perpetua dà loro l’opportunità di seguire le loro inclinazioni senza il timore di essere scoperte”. Mettete un tramezzo fra una donna incognita e un uomo sciocco, travestite una e mettete l’altro dietro un cespuglio e avrete un’opera immortale.