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Egemonia culturale

In una lettera a Giuseppe Berti, Gramsci stonò sul jazz

Siegmund Ginzberg

Era curioso e interessato a tutto, ma diffidava dei nuovi modi di comunicare la cultura popolare. Sinistra e modernità

La Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e il jazz-band è la prima molecola di una civiltà euroafricana”. No, chi scrive non è un mangiaimmigrati. E nemmeno un ultrà della purezza della razza, che terrorizza con le invasioni di culture aliene. E’ niente meno che Antonio Gramsci, il quale, con penna e calamaio, seduto nella sua cella a Milano, il l8 agosto 1927 scrive al compagno di partito Giuseppe Berti, a sua volta confinato a Ustica.

La lettera è grosso modo divisa in tre parti. Risponde a una lettera di Berti, il quale di lì a poco avrebbe sostituito Gramsci a capo del Partito comunista clandestino in esilio a Parigi, che lo informava delle lezioni di filosofia greca antica organizzate per i confinati. L’uno e l’altro parlano d’altro, evidentemente di politica sotto censura carceraria non possono parlare. Nella prima parte, Gramsci confessa di leggere di tutto, anche romanzacci dozzinali. “Leggo molto, ma disordinatamente. Ricevo qualche libro di fuori e leggo i libri della biblioteca carceraria, così come capitano, settimana per settimana. Io possiedo una capacità abbastanza felice di trovare un qualche lato interessante anche nella più bassa produzione intellettuale, come i romanzi d’appendice, per esempio”. La parte centrale della lettera è dedicata a due libri “seri”. “L’Église et la Bourgeoisie, prima parte di Origines de l’esprit bourgeois en France di un certo Groethuysen” e La Défense de l’Occident, di Henri Massis, cattolico integralista, nazionalista, di estrema destra. E’ qui che si inserisce il commento che alle nostre orecchie suonerebbe razzista, non molto dissimile da quello che in quasi gli stessi anni andava dicendo Hitler, sulla Francia agli sgoccioli perché africanizzata.

Gramsci non sposa le tesi del razzista integralista. Polemizza con lui. “Quello che mi fa ridere è il fatto che questo egregio Massis [i suoi libri andavano a ruba in quegli anni, quasi come quelli di Houellebecq e soci ai giorni nostri], il quale ha una maledetta paura che l’ideologia asiatica di Tagore e Gandhi non distrugga il razionalismo cattolico francese, non s’accorge che Parigi è diventata una mezza colonia dell’intellettualismo senegalese, e che in Francia si moltiplica il numero dei meticci”. E’ a questo punto che arriva il commento sul jazz: “Si potrebbe, per ridere, sostenere che se la Germania è l’estrema propaggine dell’asiatismo ideologico, la Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e che il jazz-band [al maschile, a quei temi la pubblicistica italiana usava così] è la prima molecola di una civiltà euroafricana”. Politically incorrect. Ma “per ridere”. Fosse capitata in mano ai censori di Stalin, quelli non ci avrebbero riso affatto sulla puntura di spillo all’asiatismo, di cui allora veniva tacciato soprattutto il comunismo russo.

La lettera viene riportata, commentata e sapientemente collocata nel contesto della pubblicistica europea del tempo in un delizioso libriccino di Roberto Franchini su Gramsci e il jazz (Bibliotheka, settembre 2024). Il giudizio perentorio sul jazz, che Gramsci riprenderà nella corrispondenza con la cognata Tatiana (ma non nei più meditati Quaderni) si comprende meglio con i giudizi che correvano sulla stampa italiana, e che Franchi documenta ampiamente. Tutti, anche i più acuti ingegni, i più rivoluzionari, sono in qualche maniera prigionieri della propria epoca. Un certo disprezzo e una certa incomprensione della modernità, una certa nostalgia per il passato, un atteggiamento che si potrebbe tacciare di “reazionario”, più che di “progressista” fanno certamente parte del DNA della sinistra del Novecento. Si pensi a Pasolini, altro grandissimo intellettuale. Ma non è questo il caso di Gramsci. Né dei dirigenti del vecchio Pci che ho frequentato e conosciuto.

Gramsci era uomo dei suoi tempi. Ma infinitamente curioso. Interessato a tutto. Alle tendenze culturali più disparate. Anche quelle più effimere, più lontane dalla sua formazione, dalla sua attività politica. Era uomo di partito. Ideologo di partito. Inventò il concetto di “intellettuale organico”, di “intellettuale collettivo”, si poneva il problema dell’“organizzazione” degli intellettuali, dell’egemonia anche in campo culturale. Ma non me lo vedo proprio nelle vesti di esecutore degli ordini di Zdanov. Alla mia prima lettura dei Quaderni del carcere, quand’ero ancora al liceo, mi aveva sfavorevolmente colpito, ad esempio, il modo in cui trattava Bucharin. Erano gli anni 60, tempi in cui non solo era stato rivelato come Bucharin era stato vittima di Stalin, ma si ipotizzava che con Bucharin il “socialismo in un Paese solo” avrebbe potuto prendere una piega diversa da quella che lo portò alla catastrofe. Forse, anzi certamente un’illusione. Come tante. Ma rileggere quelle pagine di Gramsci nei decenni successivi mi ha portato ad essere meno severo. La critica al dogmatismo, alle semplificazioni dell’ABC del comunismo mi sono apparse in una luce diversa: come critiche delle chiusure in cui si impantanava il marxismo sovietico, quanto di più lontano da un tentativo maldestro di compiacere Stalin, l’allora nemico giurato di Bucharin.

Era interessato a tutte le manifestazioni della cultura popolare tradizionale, a tutte le novità. Ma al tempo stesso diffidava dei nuovi modi di comunicare (e manipolare) la cultura popolare. Sul jazz toppava. Ma in compagnia di un altro ingegno altrimenti sottile, Theodor Adorno, autore negli anni 30 di un pamphlet contro il jazz, e di Maxim Gorki che definì il jazz “un’idiozia del mondo borghese-capitalistico”. Un’idiozia resta un’idiozia anche detta dai più intelligenti. Tra le stranezze, il fatto che Gramsci rifiutasse di tenere una radio in cella. “La radio e l’aeroplano hanno distrutto per sempre il Robinsonismo, che è stato il modo di fantasticare di tante generazioni”, scrive alla sorella Teresina nel 1932. Un po’ come rimpiangere, alla maniera di Pasolini, il tempo in cui c’erano le lucciole. Ma, da buon marxista, consapevole che senza sviluppo non si va da nessuna parte, era interessato al “Fordismo” americano. I Quaderni, nei quali riflette sui perché della spaventosa sconfitta degli anni 20 e 30, contengono una miniera di intuizioni che sembrano commenti alle cose dei nostri giorni. Una per tutte, sotto il titolo “Opinione pubblica”: “Tra gli elementi che recentemente hanno turbato il normale governo dell’opinione pubblica da parte dei partiti organizzati intorno a programmi definiti sono da porre in prima linea la stampa gialla e la radio. Danno la possibilità di suscitare estemporaneamente scoppi di panico o di entusiasmo fittizio che permettono il raggiungimento di scopi determinati nelle elezioni, per esempio. Tutto ciò è legato al carattere della sovranità popolare, che viene esercitata una volta ogni 3-4-5 anni: basta avere il predominio ideologico (o meglio emotivo) in quel giorno determinato per avere una maggioranza che dominerà per 3-4-5 anni, anche se, passata l’emozione, la massa elettorale si stacca dalla sua espressione legale (paese legale non uguale a paese reale)”. Sembra un commento alle presidenziali americane. Niente male per un carcerato di quasi un secolo fa, che non aveva nemmeno radio, tv, internet, X e altri congegni social non poteva nemmeno immaginarli.

Palmiro Togliatti era certo anche lui all’antica. Litigò in malo modo con intellettuali dissidenti. Alcuni li maltrattò in modo vergognoso. Aveva anche lui qualche fisima antimodernista. Era un uomo della terza internazionale. Non solo aveva lavorato per Stalin, ma era riuscito anche a sopravvivere. Era anche lui curioso di tutto, attento a tutte le novità. Anche se molte non le capiva, non poteva e non voleva capirle. Ero un ragazzino quando negli anni 50 una sera, a Tribuna politica, ancora in bianco e nero, gli chiesero che ne pensasse del Dottor Zhivago, e di Pasternak al quale era stato impedito di accettare e ritirare il Nobel. Rispose che aveva letto il romanzo e non gli era parso granché. Mi imbarazza ancora il ricordo di quella risposta.

Nei loro scambi epistolari Togliatti e Gramsci divagavano su cose tanto astruse da far pensare che si trattasse di una sorta di comunicazione cifrata. Mi colpisce ancora come a Ufa, sugli Urali, dove erano stati sfollati, con tutto il Comintern, con i tedeschi ormai alle porte di Mosca, a quel che racconta Giulio Ceretti, avessero il buon tempo di dibattere sulla Mandragola di Machiavelli. Meno mi sorprende che si rubassero l’un l’altro i libri. Non ho conosciuto Togliatti, ho lavorato invece, che non ero neanche ventenne, con Emilio Sereni. Che era stalinista, e anche zdanovista. Ma mi affascinava con la sua cultura sterminata, enciclopedica. Era un appassionato di fantascienza. Mi spiegò le regole della robotica inventate da Isaac Asimov, uno che con la sinistra aveva poco a che fare. Servirebbero tali e quali a dipanarsi nei dibattiti di oggi sull’intelligenza artificiale. Mi raccontava divertito di come Togliatti, ogni volta che lo incontrava, lo apostrofasse scherzosamente citando la nota frase di Goebbels: “Quando sento parlare di cultura tiro fuori la pistola”. Col senno di poi, forse non aveva torto, penso che lo scherzo si riferisse a eccessi di rigidità e chiusura ideologica.

Togliatti nei suoi viaggi si portava come livre de chevet Orazio in latino. Quando Enrico Berlinguer venne con la famiglia a fare in Cina quella che sarebbe stata la sua ultima vacanza, sul comodino aveva le Opere filosofiche giovanili di Marx. Scelta forse bizzarra. Ma all’epoca erano la Bibbia del dissenso sull’autoritarismo del “socialismo reale”. Quanto a passatismo, ai limiti del reazionario, non c’era andato leggero nemmeno il giovane Berlinguer. Da segretario dei giovani comunisti aveva pronunciato un memorabile discorso inneggiante al sacrificio di Maria Goretti, la giovane, fatta poi santa, che preferì morire piuttosto che vedere violata la sua innocenza sessuale. Poi, da segretario del Pci, avrebbe fortemente diffidato dell’esito del referendum sul divorzio e poi di quello sull’aborto.

Nell’autobiografico Un’isola, Giorgio Amendola spiega perché non gli non piacevano i dipinti surrealisti che aveva potuto vedere da giovane a Capri o dall’amico Bragaglia a Roma, con un argomento che non ha nulla a che fare con la denigrazione del loro valore artistico: “Mi sembrava macabro anticipare con furore sucida una catastrofe finale che si era ancora in tempo di evitare”. Ma forse su come stavano mettendosi le cose aveva capito meglio Max Ernst.

Alle riunioni del Comitato centrale Sereni arrivava con un borsone colmo di libri. Si sedeva a un tavolino a lui riservato. A fine riunione li aveva schedati tutti. Paolo Bufalini invece si divertiva a far circolare bigliettini in cui citava i classici a memoria. Claudio Petruccioli, quando lavoravamo insieme a Milano, me ne mostrò uno a lui indirizzato, in stilografica blu. Riportava una poesia filosofica di Tommaso Campanella. Per vostra curiosità la riporto: “Senza lutto se fosse, senza senso / sarian le cose e senza godimento / né l’un contrario l’altro sentirebbe, / né ci saria tra lor combattimento, / né generazione, e ‘l caos immenso / la bella distinzione assorbirebbe […] / Io, teco disputando, vinto e lasso / cancello, e metto in bianco / le mie ragioni; in altro conto passo” (Canzone seconda, madrigale 4).

Alessandro Natta, normalista di Pisa, era meno flamboyant di Bufalini. Combatteva a copi di citazioni latine. Era succeduto a Berlinguer. Occhetto e D’Alema lo sgambettarono in malo modo, approfittando di un suo infarto. Natta si definiva “Illuminista, giacobino e comunista”. Anche questo potrebbe essere messo in conto alle tradizioni, alle colpe originarie, risalenti forse, appunto, al giacobinismo. Ho un’opinione del tutto personale: che lì sia cominciato il declino del Pci, la maledizione per cui ogni segretario fa le scarpe al predecessore. Forse è sempre stato un po’ così. E non solo nella sinistra. Ma c’è modo e modo. Avevano un magnifico gruppo dirigente, diversificato in componenti, personalità diverse ma complementari. Ma non seppero formarne di nuovi che fossero all’altezza.

Era gente che sapeva leggere e scrivere. Di per sé non vuol dire nulla. Anche Hitler e Stalin erano divoratori di libri, avevano grandi biblioteche personali. Come del resto l’aveva accumulata anche Togliatti. A fare la differenza è però il modo di concepire la politica. La politica è “la scienza più difficile di tutte”, continuava a ripetermi Gerardo Chiaromonte, il più lucido dei direttori che ho avuto all’Unità, con Giorgio Napolitano uno dei cavalli di razza formati da Amendola. Potrei raccontare di tanti altri. Di Aldo Tortorella, che fu il primo dei miei direttori. O di Emanuele Macaluso, totus politicus. Di Gian Carlo Pajetta, che venuto a New York mi aveva trascinato con entusiasmo da ragazzino a una conferenza di Claudio Magris sul suo Danubio. O di Gianni Cervetti, figura straordinaria, venuto dal popolo, rimasto stritolato nelle beghe interne. Che ora vive consolato dalla sua biblioteca e da un’impressionante raccolta di edizioni dantesche.

Uno dei capolavori politici di Togliatti, accanto al “partito nuovo” e alla scelta della via democratica, in rottura totale con l’esperienza sovietica, fu indubbiamente il modo in cui era riuscito ad attrarre una generazione di intellettuali che si era formata sotto il fascismo, anzi erano stati fascisti, sia pure irrequieti e dissidenti. A rendergliene merito è un avversario, Curzio Malaparte. Lo definì “communiste stendhalien”. Credo fosse un complimento. Nella sua Autobiografia, racconta, da grande giornalista quale fu, di quando Togliatti, da poco sbarcato a Salerno dal lungo esilio russo, venne a fargli visita nella sua celebre casa a Capri. “Feci accomodare Togliatti nella mia biblioteca dove ebbi una prima sorpresa. Ai muri erano appesi dei quadri di scuola moderna francese e di espressionisti europei: Dufy, Matisse, Delaunay, Modigliani, Kokoschka, Lasar Segall, De Pisis, De Chirico. Togliatti si guardò intorno e disse: ‘Tò, avete un Dufy laggiù’. Un capo comunista che riconosce un Dufy a trenta passi è di certo uno di quei mostri che spaventano i borghesi. Mi incantò”.

La famigerata riconquista dell’“egemonia culturale” conclamata dalla destra di Giorgia Meloni? Altra gente, altra farina, altra roba.

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