Cosa sarebbe accaduto se
Ucronico a chi? Carrère e il vano tentativo di cambiare il passato
E se Napoleone non avesse perso a Waterloo? Lo scrittore francese ragiona sulle alternative della storia e approda a un disperato senso di indifferenza
Nel 1663, in una dibattutissima lettera sull’infinito, un raffinato intagliatore di lenti di stanza nei Paesi Bassi, Baruch Spinoza, spiegava che ci sono due modi per concepire gli accadimenti della vita. Il primo, tipico dei creduli ignoranti, li concepisce come distribuiti nel tempo: le cose accadono nel qui e ora, per scivolare pian piano nel nostro passato. Spinoza provava un’indulgente misericordia per quegli esseri umani di cognizione rozza e malcerta, che appunto intendono gli eventi come se davvero accadessero nel tempo e come se davvero il tempo potesse esser ripartito in quantità che disegnano una freccia dal passato verso il futuro. L’altro modo, l’unico affidabile e corretto, consiste piuttosto nel vedere l’intero universo come un tutto indivisibile e unico, non ripartibile in prima e poi. Tutti gli eventi di quella che chiamiamo “storia” sarebbero dunque raccolti assieme, tutti fermi e tutti sullo stesso piano. Non stupisce che, ancor oggi, gli scritti di Spinoza siano annoverati tra i metodi più raffinati per esorcizzare la paura dell’alea e della morte.
Tale prospettiva, tuttavia, non pochi problemi causa a chi fa il mestiere dello storico e si lambicca sul perché le cose siano andate come sono andate. Una delle sue più strambe implicazioni, infatti, è che non ha senso chiedersi se un certo evento del passato avrebbe potuto svolgersi altrimenti; se, invece che avere quel dato esito, avrebbe potuto avere l’esito opposto. Nell’ottica di questa insolubile connessione tra gli accadimenti, ogni singolo evento della storia non può che avere quel particolare antecedente e non può che dar corso a quella particolare conseguenza. Insomma, rispetto a un qualsiasi fatto, sarebbe del tutto vano chiedersi cosa sarebbe successo se fosse andato diversamente. Cesare non avrebbe potuto dar credito all’incubo in cui Calpurnia vedeva il marito spirante tra le sue braccia; Pilato non avrebbe potuto sottrarsi alla sua pusillanime titubanza; Gavrilo Princip non avrebbe potuto mancare l’incontro quasi fortuito con Francesco Ferdinando e la moglie Sofia a Sarajevo. Cesare, Pilato e Princip sono parte di un ramificatissimo concatenamento, simultaneo e privo di alternative. E questo, com’è ovvio, non riguarda solo i grandi snodi della storia, ma anche ogni nostra azione ordinaria, quando crediamo di poter scegliere dove andare, cosa mangiare, quale film vedere al cinema: ogni nostra scelta sarebbe già sempre inclusa in una catena di eventi, benché a noi possa apparire come il frutto deliberato di una nostra libera valutazione. La storia del mondo come quella nostra è un tutto unitario, in cui ogni evento acquisisce senso pieno solo alla luce del complesso di eventi – quando guardato, direbbe Spinoza, sub specie aeternitatis, da quella prospettiva cioè in cui la nozione di tempo non ha cittadinanza.
Raccoglie il grido di protesta contro una tale immagine della storia il giovane Emmanuel Carrère, che nel 1986, alla soglia dei trent’anni, si dedicava a una disamina delle opere e degli autori che delle alternative storiche hanno fatto un genere, detto appunto “ucronico”. Ucronia (Adelphi 2024), ora disponibile in italiano per la traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco, esalta le ascese e le cadute di un’immagine del tutto opposta della storia, quella secondo cui ogni singolo evento, prima di divenire parte del concatenamento, “esisteva in un numero quasi infinito di forme virtuali e che ognuna di quelle forme avrebbe potuto benissimo avere la meglio”. Nessun corso obbligato delle cose, nessun concatenamento indivisibile dato da sempre e per sempre: fino a un istante prima che s’innesti nel blocco granitico della storia, ogni singolo evento, come ogni nostra singola scelta, fa parte di un amplissimo spettro di alternative possibili, da cui infiniti e diversi corsi della storia potrebbero dipanarsi.
Nel suo gioco col lettore, Carrère si presenta inizialmente come un tedoforo dell’ucronia intento a farne una sorta di vicaria dell’utopia: l’una come l’altra sono prodigi dell’immaginazione, che escogitano realtà in apparenza del tutto inverosimili eppure capaci di favorire una qualche prossimità tra il mondo ideale e quello reale – con la sola avvertenza, però, che l’ucronia osa persino screziarsi di eversione: “L’intento dell’utopia è quello di cambiare ciò che è, o almeno di elaborare un progetto finalizzato a questo cambiamento. […] L’intento, scandaloso, dell’ucronia è invece quello di cambiare ciò che è stato”. Da questo avvio, l’analisi di Carrère si fa duplice: esamina le intuizioni e le velleità di alcuni grandi esperimenti ucronici e al contempo ne misura le motivazioni psicologiche, morali e persino politiche. Come si vedrà, di motivazioni non ve ne sono – almeno non di credibili; tanto che il libro via via si capovolge in un rituale apotropaico: ove possibile, astenersi dalle ucronie, alfine sempre conservatrici e inani.
Se l’intento di Carrère è dunque dissuasivo, il piano per la sua attuazione si articola felicemente in un intreccio di racconto e speculazione che informa e diverte. Ucronia insegue in particolare due forme maggiori del genere, che qui vorrei definire “nostalgica” e “moralistica”. Come insigne esempio dell’ucronia nostalgica, l’autore sintetizza ed esamina “la prima ucronia di una certa levatura”, l’opera Napoleone apocrifo. Storia della conquista del mondo e della monarchia universale, scritta da Louis-Napoléon Geoffroy-Château e pubblicata in forma anonima nel 1836. La torrenziale rivisitazione della storia primo-ottocentesca offerta da Geoffroy, che qui sintetizzare sarebbe vano (ed è in effetti faticoso anche per Carrère), è tesa a consolare l’autore e lenirne le sofferenze per la sconfitta di Napoleone e la mancata realizzazione dell’impero mondiale. In questo primo esempio di ucronia, ingenuo e un po’ pedante, Geoffroy parte dalla gloriosa campagna di Russia e arriva fino al completo conseguimento di un dominio su cui mai cala il sole. L’autore individua uno tra i molti eventi che avevano condotto alla caduta dell’Impero, lo rovescia di segno, e su tale pietra d’angolo edifica una controstoria che allevia la disperazione per un futuro possibile ma incapace di farsi presente. Opera dunque nostalgica, tesa a render presente, almeno nell’immaginazione letteraria, ciò che avrebbe potuto essere e non fu.
Diverso è l’intento delle ucronie moralistiche, volte a dare consistenza all’incubo di un futuro possibile che avrebbe potuto essere e che per nostra fortuna non si attuò. Così facendo, in verità, l’ucronia moralistica utilizza la lente deformata di un presente possibile per esaminare il nostro effettivo presente e sottoporlo a critica: scava scava, il nostro mondo lascia intravvedere pericolose somiglianze con il mondo che ci beiamo di aver scongiurato. L’esempio iconico, carissimo a Carrère, è La svastica sul sole, del 1962, nelle cui pagine Philip Dick inscena una realtà distopica nella quale le potenze dell’Asse, vincitrici sugli Alleati, hanno trasformato gli Stati Uniti in un protettorato giapponese. Ma Carrère elegge Dick ad autentico vate dell’ucronismo perché come nessun altro sa esaltarne la natura più profonda e trasformarne la carica nostalgica o moralista in genuina disposizione nichilistica. La svastica sul sole appartiene infatti a quelle rare ucronie che nei corsi alternativi della storia non vedono “la rappresentazione di un bel sogno” e “finiscono col dirsi che, se fosse vero, probabilmente le cose non andrebbero meglio. Forse neanche peggio ma, in fondo, che importa. Un mondo vale l’altro”.
In effetti, al netto delle differenze, le forme nostalgiche e moralistiche si dividono il campo inospitale dell’ucronia facendo leva su un medesimo meccanismo di base: alterando la direzione della storia, vogliono destare un effetto di rispecchiamento in forza del quale, nell’intrico di fatti possibili ma non concretizzatisi, vediamo meglio noi stessi e il nostro presente. E’ per questo che Carrère insiste molto sulla mise en abîme, tratto tipico e inestirpabile dell’ucronia. Termine che André Gide mutuò dall’araldica, la mise en abîme definisce la proprietà di alcuni dipinti in cui uno specchio convesso riflette la scena del quadro, o, per l’appunto, una narrazione ucronica contiene in sé un contro-testo che narra la maniera in cui le cose si sono effettivamente realizzate. Si dà quell’effetto “specchio nello specchio” per cui l’ucronia, parlando d’altro, parla sempre e solo degli eventi per come concretamente effettuatisi. Per questa ragione, l’ucronia non sa davvero uscire dal coriaceo presente, neppure quando ne immagina di alternativi e per essi imbastisce genealogie più o meno sofisticate.
Come in ogni suo testo, e per una serie di riferimenti incrociati – tra cui la mise en abîme della propria trattazione – Carrère ci parla di sé e del suo profondo e disperante senso di indifferentismo. In questa chiave, uno dei passaggi dirimenti è quello in cui sostiene che l’ucronia “è solo uno dei tanti possibili, una traiettoria singola, immaginata da un individuo a partire da scelte arbitrarie. E l’universo in cui viviamo non vale molto di più”. Geoffroy vive nel mondo sbagliato, quello in cui Napoleone morì prigioniero a Sant’Elena, e quel mondo, ai suoi occhi, vale come qualsiasi altro che non sia l’unico desiderabile, quello in cui l’Imperatore trionfa e domina. Dick, persino più inerte e indifferente, non ha nulla da mutare o scongiurare, “perché si sa che tutto è vanità, che la storia può prendere qualsiasi piega senza che questo apporti il minimo cambiamento a un’unica cosa, del resto immutabile”.
Non sorprende quindi che, per quanto Ucronia tratti dei temi classici della necessità e del libero arbitrio, quelle non siano le sue pagine più felici – riflessioni sempre intelligenti, beninteso, ma che non affondano il morso in un problema capace di tenere insonni autori come Edgar Allan Poe o Carlo Emilio Gadda. L’obiettivo di Ucronia non è speculativo ma esistenziale: vuol mostrare la vanità dell’immaginare alternative a fini pedagogici o morali. E questo spiega perché Carrère (studiatamente) ammetta l’errore del parallelo con il quale in apertura del libro associa utopia e ucronia: “Il prefisso privativo è l’unico tratto che accomuna” le due. Ma di fatto, riconosce l’autore verso la conclusione, la differenza tra utopia e ucronia è di genere e non di grado: mentre il lavorio indomito e quasi sempre postumo degli utopisti un qualche senso ce l’ha (“l’utopia esercita un’influenza, prende corpo a sua volta nella storia da cui trae origine”), l’ucronia è stupida, inefficace, inane. Persino autolesionista, perché sfalda il terreno su cui poggia i sostegni e rafforza il suo avversario (cioè la storia) proprio nel momento in cui vuol mostrare che le cose avrebbero potuto andare diversamente e finisce col fornire “la prova trionfale che di fatto non sarebbe potuto accadere” altro che quanto accaduto.
Ma lo sconforto per il destino ordinario del genere ucronico cela probabilmente una ben più pungente critica dell’ucronia quale avventata e patetica incriminazione della letteratura come tecnica eversiva. Perché tutta la letteratura, per statuto e professione, obbedisce alla legislazione del “come se” per sfidare la tirannide del reale e del suo ordine vincolato degli eventi. Tutta la letteratura nutre la cattiva coscienza di ogni lettore quando disarticola il tempo e lo spazio innestando l’irreale nel reale: il romanzo introduce eventi possibili mai realizzati nella catena degli eventi realizzati. L’ucronia, goffa e sprovveduta, non fa che portare all’estremo un tale gesto di sedizione per riconsegnarsi però al dispotismo della storia effettiva e dei suoi meccanismi causali. Così facendo, denuncia il camuffamento della letteratura e la rende prigioniera del reale. E mentre aspira a servire da “specchio laterale della storia”, l’ucronia “è soltanto un gioco mentale” che “non ha mai veramente attirato né appassionato la gente […] perché la storia in realtà non ha la minima importanza”.
Nessun conflitto, dunque, tra Carrère e Spinoza, né sulla struttura dell’universo né sulla postura teorica che dovrebbe farne seguito. Anzi, un rinnovato sodalizio proprio sull’unica possibilità che si riserva all’essere umano rispetto alla storia, come nota in V13 (Adelphi 2023): “Abbiamo dimenticato il grande precetto di Spinoza: non deridere, non compiangere, non condannare, comprendere soltanto”. Inutile sottoporre la storia a un nostalgico vaglio, oppure a critica biliosa, con l’ideazione letteraria di alternative possibili, giocoforza farraginose, slabbrate, facile preda del paradosso temporale. La letteratura conservi piuttosto il proprio mestiere di sedizione silente e la cronaca storica rispetti il carattere obbligato degli eventi, perché la commistione tra le due non solo è inefficace, ma – colpa ben più grave – rischia di annoiare.