La recensione

Registi che osano (al confino!) e melomani fissati con un Verdi sbagliato

Alberto Mattioli

Il Festival Verdi di Parma ha un grosso problema: si svolge a Parma, dove l'innovazione non sembra incoraggiata. Forse è per questo che Il Ballo di Daniele Meninghi è stato confinato a Busseto, in provincia, nell’incantevole teatrino da trecento posti

Il principale problema del Festival Verdi di Parma è che si svolge appunto a Parma. Verdi è già l’operista più conosciuto ed eseguito al mondo; quindi, è ovvio che se gli si dedica un festival non conta tanto cosa si propone, ma come. Per non risultare una normale stagione d’opera sotto mentite spoglie benché monografica, un festival dev’essere per definizione innovativo, propositivo, perfino provocatorio (e qui provvede il cartellone del Verdi off, davvero spiazzante dunque gustoso). La piazza è però ancora popolata dai “custodi” di un Verdi immaginario e sbagliato, barilliano e vociomane, che detestano a prescindere tutto quel che non hanno mai visto, iniziando ovviamente da regie assolutamente normali nel resto del mondo, che qui paiono eversive. Forse per questo lo spettacolo più potenzialmente pericoloso, Un ballo in maschera con una compagnia di giovani e la regia di un altro giovane, Daniele Menghini, è stato confinato a Busseto, nell’incantevole teatrino da trecento posti che Verdi assolutamente non voleva e che oggi naturalmente porta il suo nome (che ironica delizia, poi, che ci si faccia proprio il Ballo, l’opera dove Verdi fa l’antropologia del pettegolezzo, esattamente quel che non perdonava ai concittadini).
 

Menghini del Ballo ha capito tutto, e quella che è, a seconda delle censure, la corte di Gustavo III di Svezia o di Riccardo, governatore di Boston, diventa un incrocio fra I vitelloni, per il continuo cazzeggio di questo governatore che tutto fa meno che governare, e I pirati dei Caraibi per le evasioni esotico-avventurose con sottofondo dark spennellato d’ironia. E dunque Riccardo and friends curano l’hangover post notte brava servendosi di coca (cola, precisiamo), si travestono con ricchi costumi settecenteschi, gli uomini da donna e viceversa, e muoiono su surreali troni di teschi, mentre Ulrica è sfranta tal quale la povera Gruberova quando faceva Elisabetta nel Roberto Devereux. Spettacolo intrigante, intelligente, erotico, perfino ossequioso alle didascalie (eh, sì) e, a sorpresa, nemmeno fischiato dalle vestali, che si sono limitate a brontolare sulla sempre stupenda Gazzetta di Parma. Però in una sala piccina picciò e con voci che non canterebbero quest’opera in un teatro grande (per ora, almeno) ci sarebbe voluta una direzione ad hoc, non quella sbrigativa e macignosa di Fabio Biondi con un’orchestra, oltretutto, priva della necessaria finezza cameristica. Ma Caterina Marchesini, 25 anni, è un’Amelia sorprendente benché all’inizio emozionata (e che do acuto!) e Lodovico Filippo Ravizza ha una delle voci baritonali più belle degli ultimi tempi. C’è perfino un’ottima Ulrica, Danbi Lee. Giovanni Sala è un ossimoro, un tenore intelligente, ma è leggerino e quindi soffre di più l’insostenibile pesantezza della direzione.
 

Al Regio è invece andata La battaglia di Legnano. E qui il paradosso è che l’unico titolo programmaticamente risorgimentale di Verdi, patriottico a 24 carati, per musica e drammaturgia sia la più francese delle sue opere italiane. L’ha capito il giovin direttore Diego Ceretta, classe 1996: idee chiare, braccio per realizzarle, finezze d’orchestrazione attentamente sottolineate senza calligrafismi, ritmo teatrale, insomma bra-vis-si-mo. Compagnia medio-buona: Marina Rebeka è diventata un po’ metallica, ma è una sicurezza; Antonio Poli ha un timbro di bellezza surreale e sa anche cantare piano; Vladimir Stoyanov è sempre un artista però vocalmente risulta un po’ usurato. Lo spettacolo di Valentina Carrasco moltiplica i cavalli, morti, vivi, feriti, decapitati, prime vittime di ogni guerra almeno fino all’avvento del motore a scoppio. Mai visti tanti cavalli in scena, nemmeno nei Pizzi più equestri. La tecnica di Carrasco è sempre notevolissima, con luci (Marco Filibeck), scene (Margherita Palli) e costumi (Silvia Aymonino) di grande finezza, e l’idea di partenza buona, ma forse non sufficiente per risolvere un’opera così complicata. Insomma, regia di solita e solida professionalità, ma lontana dai capolavori carrascheschi tipo i Vespri di Roma o il Nixon in China di Parigi

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