il libro
La mentalità anticapitalistica nei manuali scolastici: un'indagine
Imprese produttive e mercato contestati a favore del radicalismo verde e delle teorie contrarie al liberismo. Così le ideologie cominciano ad annebbiare le giovani menti già dai libri di testo
Anticipiamo un estratto dell’Introduzione di “A scuola di declino. La mentalità anticapitalista nei manuali scolastici”, di Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri da oggi in libreria (Liberilibri, 160 pp., 16 euro)
Quello che avete fra le mani è il frutto di un piccolo viaggio attraverso i libri di testo che hanno formato, negli ultimi decenni, quanti vivono e lavorano oggi in Italia. Tutti e tre gli autori sono passati attraverso la scuola pubblica in un periodo appena precedente, quando l’ubriacatura di marxismo teorico, dentro e fuori i plessi scolastici, provocava miasmi che non di rado si traducevano in piombo. Questo viaggio dimostra che, dopo il crollo del muro di Berlino, almeno dal punto di vista ideologico, non è cambiato moltissimo. Gli autori di questo volumetto sono tre professori, uno del liceo e gli altri due universitari, che insegnano materie di carattere storico-filosofico, vale a dire proprio quelle in cui i pregiudizi sono più facili da inoculare. Le parole sono il denaro dei folli, diceva Thomas Hobbes, e noi siamo ricchissimi: maneggiamo parole di altri per professione e forse pure per vocazione. Ma probabilmente proprio per questo crediamo che le idee abbiano delle conseguenze.
Il lettore poco smaliziato potrebbe considerare le idee politiche ancillari rispetto alla costante della storia: la lotta per il potere. Ma resta il fatto che quelle sono un elemento essenziale di questa. E soprattutto non esiste alcun cambiamento politico rilevante nella storia umana che non abbia avuto bisogno di una qualche forma di legittimazione intellettuale. Ogni grande o piccolo mutamento si è nutrito di idee e ha provocato nuove riflessioni. Al punto che è impossibile sottovalutare il ruolo del pensiero nella storia.
Se il periodo da noi considerato copre quasi gli ultimi quarant’anni, questo è anche l’arco di tempo che vede un triste primato italico nel mondo: l’Italia è il paese che è cresciuto meno sul pianeta (pare che solo lo Zimbabwe e il Venezuela abbiano fatto peggio). Sappiamo che è una cosa talmente accettata da non rientrare neanche nel dibattito politico. In ogni modo, le cause che hanno condotto una generazione e mezzo alla crescita zero sono tipicamente riconosciute nel peso dello stato (tassazione altissima, regolamentazione folle, spesa pubblica fuori controllo), nella burocrazia incapace e invasiva, nella scarsa produttività del lavoro dovuta a una struttura industriale inadeguata (il capitalismo molecolare).
Crediamo di aver individuato quelle che sono le radici più profonde del nostro lento e inesorabile declino in termini di prosperità nella mentalità anticapitalista, che il grande economista austriaco Ludwig von Mises associava al risentimento intellettuale per le ambizioni frustrate, istillata nei giovani fin dalla più tenera età. Si tratta di cause ideologiche ben difficili da misurare, ma non per questo meno reali.
Abbiamo documentato solo una piccola frazione di quei fumi ideologici che annebbiano le menti giovanili. Ricercare la mentalità anticapitalistica nei libri di testo delle scuole italiane dà risultati veramente sconcertanti. In volumi pubblicati e scritti dopo il Duemila viene ammannita ai poveri giovani italofoni la fola del “liberismo selvaggio” come causa di tutti i mali del mondo. E non mancano manuali, anche recentissimi, nei quali viene semplicemente esaltata la comune maoista. Il fatto è che, perlopiù, gli intellettuali sono convinti che l’economia di mercato sia semplicemente un cancro e che il comunismo si sarà pur rivelato la cura Di Bella, ma resta comunque un tentativo di terapia rispetto al male assoluto. L’imputazione cambia e i rimedi si rivelano illusori, ma il mercato, l’Occidente e in primo luogo l’America sono sempre sul banco degli imputati. Gran parte degli intellettuali, allora, non riconosce i crimini comunisti perché li ritiene null’altro che un eccesso di legittima difesa di fronte al male in Terra, vale a dire il capitalismo e il libero mercato. Persino i libri di geografia che abbiamo scelto di scandagliare, infatti, sono quasi sempre strumenti di propaganda di tutte le più fruste superstizioni in tema di ambiente, così che le nozioni propriamente geografiche sono subordinate a discorsi fortemente ideologizzati e orientati ad accreditare ogni dottrina indimostrata dell’ecologismo più radicale.
Mentre l’orizzonte ideologico più propriamente marxista sembra assai lentamente declinare, prende corpo una radicale contestazione delle imprese produttive e del mercato che poggia sul radicalismo verde. Se la condanna del sistema industriale è una costante, ad essere oggi maggioritarie sono le concezioni che insistono ossessivamente sulla limitatezza delle risorse naturali, sul carattere inevitabilmente inquinante della tecnologia, sulla necessità di mettere sotto controllo la demografia e limitare (o bloccare) lo sviluppo. In un’area che non ne conosce alcuno da quasi quarant’anni la cosa può apparire addirittura criminale.
Per contrastare una tale situazione e liberare le prossime generazioni dai suoi cascami ideologici ci vorrebbe un movimento sia politico sia culturale disposto a puntare tutto sulla battaglia delle idee. Occorrerebbe estrarre dal cilindro la merce più scarsa del mondo: intellettuali ben preparati a diffondere l’idea della legittimità morale, prima ancora che politica, del mercato. Proprio quello che manca in Italia.