Foto di repertorio Ansa

La recensione

Il salto vertiginoso di Carsen dal barocco alla Milano fighetta d'oggi

Alberto Mattioli

L'Orontea di Antonio Cesti alla Scala è un esempio magistrale della bravura di Carsen: ambientata in una galleria d’arte contemporanea milanese, l’opera mescola dramma e commedia in un turbinio di personaggi e situazioni per uno spettacolo unico, nonostante una gestione dello spazio non ottimale

I registi d’opera si dividono in due categorie: Robert Carsen e gli altri. Sono ormai quarant’anni che Robertino nostro non sbaglia un colpo: i suoi spettacoli peggiori sono quasi sempre migliori di quelli di tutti gli altri; i più riusciti, dei capolavori. A quest’ultima categoria appartiene L’Orontea dell’abate Antonio Cesti, anno di molta grazia musicale 1656, che la Scala propone fino a sabato ed è assolutamente imperdibile. È una vertiginosa commistione di dramma e commedia, alto e basso, sublime e triviale, tutto agitato e non mescolato insieme in uno shaker, si direbbe, shakespeariano. Dunque, qui abbiamo Orontea regina d’Egitto che ha deciso di non amare più nessuno, ma naturalmente perde la testa per il bellissimo pittore Alidoro di passaggio alla sua corte. Lo impalmerà dopo tre atti di turbinosi scambi di coppie, altro che Così fan tutte (opera peraltro che Carsen metterà in scena nella prossima stagione alla Scala, mai che il pavido teatrone gli dia un Verdi), con contorno di vecchie lubriche, servitori ubriaconi, sicari sbadati, paggi saggi, filosofi sentenziosi e rompiscatole, castrati come se piovessero, soprani donne travestiti da uomini di cui s’innamorano altre donne, insomma anche tutta l’allegra confusione sessuale del Seicento stufo di rigori controriformistici. Roba da far gridare alla propaganda gender fratelli e sorelle d’Italia, se solo ne sospettassero l’esistenza.
 

Come molti uomini molto intelligenti, Carsen ha una vena di sarcasmo che confina con la perfidia e ambienta quindi il tutto in una galleria d’arte molto cool della Milano più contemporanea e modaiola. Orontea dirige il traffico di quadri e amanti da uno spettacolare studio affacciato su piazza Gae Aulenti e sul Bosco verticale (e dove, se no?); Alidoro inizia come barbone stracciato e poi, “scoperto” come artista di genio, viene rivestito con un pazzesco completo a ramage dorati; i servi spettegolano e la milfona Aristea cerca di concupirli al piano -3, fra i bidoni della differenziata e i motorini parcheggiati. La scena rotante di Gideon Davey è perfetta come i suoi costumi. Gli invitati al vernissage sono appunto vestiti da Milano fighetta e instagrammata: a parecchia gente saranno fischiate le orecchie. Intanto si apprezza per la tremilionesima volta la millimetrica gestione dello spazio scenico di Carsen. Sono tutti esattamente dove devono essere, non un centimetro più in là, e ovviamente recitano tutti da padreterni, giocando con mode e modi della nostra devastata contemporaneità: il trionfo del selfie, insomma. Spettacolo memorabile.
 

Giovanni Antonini sceglie un’edizione un po’ tagliata (sparisce tutto il Prologo) e con qualche aggiunta strumentale. La Scala, com’è noto, è troppo grande per questo repertorio, ma la parte musicale funziona grazie alla direzione incalzante e fantasiosa e all’ottima prova degli orchestrali del teatro su strumenti storici, rinforzati da un po’ di specialisti per tiorbe, lironi e dulciane. In scena, davvero tutti bravi; bravissimo Carlo Vistoli, la star della voce bianca, che fa un Alidoro perfetto. Ma è molto convincente anche l’altro falsettista, Hugh Cutting, deliziosa da vedere e da sentire Francesca Pia Vitale, perfino sprecata per il valletto Tibrino Sarah Blanch, divertenti Luca Tittoto come ubricone e Marcela Rahal come Aristea (per queste parti di vecchie smaniose preferiremmo però un tenore), inappuntabili Mirco Palazzi e Maria Nazarova. La protagonista, Stéphanie d’Oustrac, appare vocalmente un po’ inspessita, con alcune curiose emissioni che sembrano controtenorili nel registro grave. Ma ha classe, allure, personalità e la parte di gran dama dell’arte contemporanea le sta a pennello. Scala piena con alcuni pisolini e qualche defezione fra un atto e l’altro, son pure sempre tre ore e mezza di basso continuo. Però gli abbonati del turno A, di solito un po’ meno vispi delle mummie dell’Egizio di Torino, hanno apprezzato molto e sono pure restati ad applaudire a lungo invece di fiondarsi sui taxi. Miracolo a Milano.

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