Letture
Cormac McCarthy, dal nichilismo all'apertura mistica su un mondo "terribile e bello"
Lo scrittore statunitense non solo riesce a catturare perfettamente il senso di disorientamento e frattura che attraversa il nostro tempo, ma va oltre. Ecco "Introduzione a Cormac McCarthy. Un romanziere metafisico" di Vincenzo Lomuscio (Edizioni di Pagina, Bari, 225 pp., 16,50 euro)
Ci sono romanzieri che interpretano in maniera magistrale un tempo come il nostro in cui l’esistenza degli umani, e finanche la presenza delle cose, della natura, della società, sembrano attraversate da una ferita che non si rimargina. Non tanto perché il mondo non funzioni bene o si scopra la presenza del male, l’ombra incombente della nostra libertà finita. Ogni epoca infatti ha dovuto fare i conti con la nostra strutturale inadeguatezza a compiere la vita e a rendere perfetto il mondo. Va da sé. È un problema fisiologico, più che patologico.
La frattura che segna il nostro tempo “nichilista” è dovuta al dileguare del senso ultimo della realtà e soprattutto del significato del nostro stare al mondo. Ci sono senz’altro autori, in quello spazio di verità che è la letteratura, che colgono questa frattura profonda tra la vita e il senso della vita. E che raccontano con stile e cadenza inconfondibili la spaesatezza del tempo, fatta di vuoto e insieme di struggimento. Ce ne sono.
E poi c’è Cormac McCarthy. Ed è un’altra cosa. Non è il più “bravo” tra gli scrittori o il migliore tra i narratori – anche se non sfigurerebbe certo in un confronto. Ma il fatto è che McCarthy, per usare le parole con cui il pittore Paul Klee indicava il compito dell’arte, “non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile” quello che prima non si vedeva o non risultava manifesto. Cioè rende l’esistere dell’io e l’essere del mondo – proprio attraverso la loro opacità – trasparenti rispetto al senso che li abita o anche rispetto al senso che hanno perduto. Per questo risulta davvero indovinata la scelta di una recentissima “Introduzione a Cormac McCarthy”, dovuta alla penna felice di Vincenzo Lomuscio, che porta come sottotitolo “Un romanziere metafisico” (Edizioni di Pagina, Bari, 225 pp., 16,50 euro).
Gli interpreti hanno calcato la mano, di volta in volta, su una dimensione particolare dei romanzi di McCarthy, toccando gli estremi di un autore brutalmente nichilista o esistenzialmente teologico, ma tutti poi, da punti di vista anche opposti, finiscono per riconoscere che le due cose stanno paradossalmente e inevitabilmente insieme. E il nome di questo legame è “il mistero” che costituisce la stoffa del nostro stesso esistere (pensiamo a romanzi come “Il buio fuori”, “Meridiano di sangue” o alla meravigliosa “Trilogia della frontiera”).
Lomuscio insiste in maniera convincente e documentata sulla metafisica di un mondo insieme “terribile e bello”, proprio nel momento in cui il nichilismo curva in un’apertura quasi mistica: “E se la nichilistica quanto ‘vivida fatticità’ degli eventi ‘ingoia la luce’, forse è proprio percorrendola che si può cogliere quella luce metafisica intrappolata in essa, come se il buio fosse la via obbligata per accedervi, esattamente come, per comprendere meglio i misteri dell’universo, dobbiamo guardare attraverso un buco nero” (pp. 109-10).
Proprio il confronto con i diversi approcci interpretativi (oltre a quello nichilistico, anche quello gnostico e quello cristiano) non riesce mai a dire l’ultima parola sul senso di un’opera misteriosa come quella di McCarthy: una irriducibilità, anche rispetto a categorie epocali o spirituali, che si riscontra forse solo in Dostoevskij. McCarthy sembra ostinato nello spiazzarci puntualmente, ogni qual volta vogliamo dare un sigillo netto o imprimere una direzione conclusiva alla sua traiettoria umana e narrativa. Lo si vede bene dalle poche interviste che ha concesso, come quando rivendica la sua condizione di “materialista” che si guarda dall’affidarsi a una religione, o quando al contrario individua il compimento della vita dei suoi personaggi (pensiamo soprattutto a “La strada” e al formidabile dittico finale de “Il passeggero” e “Stella Maris”) nell’offerta eucaristica della propria vita e nell’attesa di una grazia sconosciuta e imprevista, quasi una preghiera.
E in definitiva sia nel rapporto reale e commosso tra il padre e il figlio de “La strada”, sia nel rapporto scabroso e impossibile tra Bobby Western e sua sorella Alicia del dittico finale, la cifra di McCarthy è quella di “un’attesa sul limite”. Ma non è solo una sospensione; al contrario è il punto in cui tutto può avvenire. Ed è questa possibilità sconfinata ciò che lo scrittore “rende visibile”. Nessun lieto fine chiude il cerchio, perché la vita è appunto il manifestarsi di questa infinita possibilità che non si chiude, perché rinasce sempre come una gloria dal dolore e dalla sofferenza. Tanto più paradossalmente possibile, perché impossibile ai nostri sforzi o ai nostri progetti. E tuttavia data, presente nella nostra stessa carne, nel nostro desiderio, nel nostro cuore.
Come dice la formidabile figura della trans Debussy, in un dialogo con Bobby Western. Lui le chiede: “Tu ci credi in Dio?”, e lei: “Non so chi o cosa sia Dio, ma non credo che tutto questo sia arrivato qui da solo. Io inclusa. Forse tutto evolve esattamente come dicono. Ma se indaghi la fonte, a un’intenzione alla fin fine ci arrivi per forza”. E rincalza: “Circa un anno più tardi mi sono svegliata ed era come se avessi sentito questa voce nel sonno e riuscivo ancora a sentirne l’eco e diceva: Se qualcosa non ti avesse amato non saresti qui. E mi sono detta okay. D’accordo. Ci sta” (“Il passeggero”).