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Il mito del tempo

Quel “filo della continuità" che lega sempre il passato e il presente. Un libro

Valentina Berengo

Il trascorrere del tempo e la casualità dell'esistenza animano di saggi, falsi diari, articoli e pagine dedicate agli amici di una vita, condensati in una raccolta: il talento di Javier Marías ritorna in libreria con una nuova raccolta, a due anni dalla sua scomparsa

Uno dei tratti peculiari della letteratura di Javier Marías è il ruolo enigmatico e fondativo del tempo. A significare che anche il lettore più distratto non può non rendersi conto che, nelle vicende intricate che il romanziere spagnolo racconta nei suoi libri, basta aspettare perché tutto ciò che sembra essere accaduto per una certa ragione e destinato a evolvere in un certo modo cambi di segno. Leggendo "La metà del mio tempo”, appena uscito per Einaudi postumo (Marías è morto l’11 settembre del 2022), già pubblicato in Spagna nel 2008, è possibile comprendere che questo aspetto non è caratteristico solo della letteratura di Marías ma discende dalla sensibilità dello scrittore per il quale il passato e il presente sono legati dal “filo della continuità” e secondo cui “per quanto siamo consapevoli della nostra probabile durata, il nostro radicamento nella vita ci rende molto difficile abbandonare l’idea alla quale siamo abituati, e cioè che abbiamo sempre, se non tutto, almeno molto tempo davanti, e che il passato, di cui ci resta solo il ricordo, non possa essere altro che – indefinitamente – la metà, quella metà”.


Ecco perché, quindi, in questa raccolta di saggi, “falsi diari” e articoli, prevalentemente usciti sul supplemento domenicale del País, emergono pagine dedicate ad amici con cui l’autore è stato in relazione “dai cinque agli undici anni”, sono citate più e più volte amiche di penna ottuagenarie, molto è detto delle sue radici (il padre scrittore, messo in “esilio interno” da Franco; la madre dedita alla famiglia; i fratelli creativi quasi quanto lui), per non parlare dei suoi riferimenti letterari, come Juan Benet, perché anche un maestro ha dei maestri. Molte sono le pagine dedicate alla giovinezza così come alla fine e all’immortalità (per esempio in un saggio poderoso dal titolo “La difficoltà di perdere la gioventù”) in cui si comprende che tutto si tiene e che la creatività è il frutto di un’azione non compiuta ma sempre in procinto d’essere. Marías scriveva romanzi come fossero vite, lo racconta alla giornalista della Paris Review nell’intervista che chiude la raccolta: “Anche quando mi renderebbe tutto più facile aver detto questo o quello a pagina 5, io non la cambio più. […] Quello che fai a quindici o vent’anni non puoi cambiarlo”. Ecco perché, per lo spagnolo, cosa ci è successo da piccoli ha valore tanto quanto quello che abbiamo vissuto ieri, l’ultima donna non è più importante della prima: “Quello che credo di vedere nelle mie fotografie o nei ricordi è che l’adulto che sono era già contenuto nel bambino che ero”, scrive. Ma non si pensi che Marías fosse figlio del determinismo, tutt’altro. La frase di Shakespeare che ha dato il titolo al celeberrimo "Un cuore così bianco” l’ha inserita per caso. “Se quella sera fossi uscito, come facevo sempre, non avrei rivisto quel film e […] sarebbe stato diverso”. Non c’è nulla di più casuale della vita, e proprio per questo il più grande tra i romanzieri può confessarlo.
 

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