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Orizzonti filosofici

Tra Nietzsche e la libertà. “Il crepuscolo dei pensieri” di Emil Cioran

Elisa Veronica Zucchi

Lo scrittore rumeno, con una passata ammirazione per Hitler (poi ripudiata) torna in libreria con un'opera del 1940 in cui raccomanda di "smettere di appartenere al mondo” e slittare fuori dalle apparenze. Consapevolezze nate attraverso il dono della sofferenza, eletta a strumento di conoscenza

Quale mancanza alimenta la lucida insonnia di un filosofo come Emil Cioran?  E’ da poco in libreria "Il crepuscolo dei pensieri” (Adelphi, 238 pp.). Questo volume del 1940, pubblicato dalle Éditions de l’Herne nel 1991, è nietzschiano fin dal titolo. E’ redatto dallo scrittore rumeno in lingua madre (poi adotterà il francese).


Nato a Răşinari nel 1911, un anno dopo la scomparsa di un pensatore altrettanto cruciale per il Novecento e a lui decisamente affine, Carlo Michelstaedter, questo controverso pensatore del nulla e del paradosso (“forma sorridente dell’irrazionale” attraverso cui la ragione “salva il proprio onore”), amico di Eugène Ionesco, di Mircea Eliade e di Paul Celan, guarda su un orologio antico e rotto, e si dice disgustato dalla “voluttà d’immanenza”. Infatti “bisogna smettere di appartenere al mondo, perché la vita sembri un assoluto. Tale è la prospettiva che se ne ha dal cielo”. Questo “slittamento fuori dalle apparenze”, dalle falsificazioni e dagli inganni, coincide con un persistente dileguare delle immagini e delle forme, che si disgregano per lasciare una sensazione di solitudine simile al sentimento del nulla. Tuttavia, persino l’estasi dei mistici è anche mondo. D’altronde, spiega Cioran, “il profumo è la storia di un fiore, come lo spirito lo è dell’individuo”


Il filosofo del Vago scandaglia il tessuto del pensiero (che dovrebbe essere una “fuga terapeutica in senso cosmico”), sfilaccia i brandelli e le trame, bandisce gli aggettivi, toglie gli abiti, trovandosi, infine, a fare i conti con la precarietà, l’insensatezza e l’infinito delle possibilità. Con la potenza di un infiammato e provocatorio scetticismo – in fondo religioso – che incenerisce ogni pretesa di verità assoluta, Emil Cioran passa al setaccio la parata delle contraddizioni, constatando che al massimo grado di profondità si smetterebbe di esistere. Questa intuizione richiama nuovamente Carlo Michelstaedter, il quale osserva come una persuasione persistente e assoluta della verità non porterebbe che all’abnegazione dell’individualità e alla morte. Entrambi i filosofi vogliono coincidere con qualcosa. Se per il goriziano è necessario “far di sé stesso fiamma”, al rumeno l’oggetto del desiderio, un nulla che pur alla fiamma somiglia, sembra sfuggire incessantemente. E’ proprio questo scarto, generato dall’impossibilità di una compiuta coesistenza fra sé e l’“essenziale” – inteso come coscienza pura e assenza di coscienza – a provocare nell’autore di "Al culmine della disperazione” uno smarrimento e una malinconia tormentata. Attraverso il dono della sofferenza, eletta a strumento di conoscenza, le profondità del bene e del male comunicano.


Purtroppo un passato esecrabile oscura la grandezza dell’opera del filosofo, nonché quella dello storico delle religioni: entrambi aderiscono alla “Guardia di ferro”, movimento rumeno ultranazionalista di ispirazione fascista. Nel pamphlet "Trasfigurazione della Romania”, pubblicato nel 1936 (e ancora non tradotto in italiano), Emil Cioran, che nel 1937 emigra a Parigi, oltre a denunciare la mancanza di spirito patrio, dichiara la sua ammirazione per Hitler. In seguito, vergognandosene profondamente, ripudierà le sue posizioni. Con doti di chiaroveggenza, inoltre, ravviserà nella miseria spirituale dell’Europa la decadenza dell’occidente, troppo fiaccato per difendere una libertà che la Russia non conosce. Ma che cos’è la libertà per Emil Cioran? Una sensazione di consolazione, simile a un ritmo segreto; il sogno dell’indistinto, Brahms, “Le ultime sette parole del Redentore” di Haydn.