A destra, il regista austriaco Georg Wilhelm Pabst - foto via Getty Images 

Letture

Artista e uomo esecrabile (probabilmente): così Kehlmann racconta Pabst

Marco Archetti

"Il regista" è il nuovo romanzo di Daniel Kehlmann che racconta della vita e, soprattutto, delle opere del maestro del cinema austriaco Georg Wilhelm Pabst, morto a Vienna nel 1967 e pressoché dimenticato. Una bella prova smagliante di sensibilità antisensibile

Non crepare val bene un saloon? Georg Wilhelm Pabst è stato un grande Maestro del cinema, eppure è morto a Vienna pressoché dimenticato nel 1967. Sessant’anni dopo Daniel Kehlmann decide di restituire una storia a chi se la merita e col suo nuovo romanzo Il regista (Feltrinelli, 384 pp., 20 euro) lo risarcisce, offrendoci un’altra smagliante prova di tutta la sua sensibilità antisensibile – mai e poi mai, in un racconto o in un romanzo, Kehlmann si è dato a quella ripugnante e furfantesca forma di estorsione tanto in voga, di pizzicare il lettore per le budella e di stringere sempre più forte finché non si ode il miagolio del ferito a sangue, il che fa di lui uno scrittore da rispettare proprio perché rispetta nel profondo il lettore e il suo diritto a esserlo, senza venire ridotto a pedina di chi scrive.
 

Il romanzo di Kehlmann è un’operazione ardita. Che compone, del genio austriaco, un ritratto in due tempi: di esule a bordo piscina hollywoodiana prima, e di rientrato all’ovile del Terzo Reich dopo. Trasformando la sua storia – divisa tra Europa e America negli anni del nazismo e della guerra – in una scommessa narrativa che ha il rintocco del noir (tremenda l’apparizione del losco Küno Krämer al party di Fred Zinnemann in America e il dialogo, tesissimo, tra Pabst e il medesimo, che altri non è che il ministro del Reich per l’Istruzione pubblica arrivato fin là per fargli intendere qualcosa), il respiro del romanzo storico (ma sempre kehlmanniano, chi lo ama lo seguirà anche qui) e l’orizzonte della grande letteratura, assecondando la danza dei punti di vista dei molti personaggi intorno a una grande domanda: quella circa la natura del rapporto tra arte e potere, tra l’artista e le innumerevoli sudditanze che gli toccano suo malgrado, sulla morale di un uomo e sul destino della propria famiglia e di un intero paese, su ciò che è tragedia collettiva e crudeltà individuale.
 

Il punto è che Pabst e l’America non sono fatti l’uno per l’altra. Al party per la presentazione del proprio film, un Fred Zinnemann invece adattatissimo dice a sua moglie: “Questo è un altro mondo. È pieno di palme, non esiste un caffè decente, ma i succhi di frutta sono eccezionali! Sai cos’è il mango? Chi ha bisogno di una Sacher, quando può mangiare mango tutti i giorni?”. Poi la chiude così: “Qui si vive molto bene, se si imparano le regole del gioco. Siamo scampati all’inferno, in realtà dovremmo essere felici dalla mattina alla sera. Invece ci dispiacciamo perché dobbiamo dirigere western”.
 

Torniamo all’inizio: non crepare val bene un saloon? O è l’esatto contrario, cioè che l’arte, anzi, l’Arte, si autolegittima e non soggiace ad altro che a sé stessa? L’artista ha diritto a sé anche al prezzo delle più torbide ambiguità?
 

A un certo punto Pabst deve tornare in Austria, la madre sta male. Gli eventi decidono per lui, che non si decide. Poi ci va, con in tasca i documenti e i salvacondotti per tornare in Francia e poi negli Usa, dunque, nei recessi di sé stesso, pensa – sospetta – che un saloon valga davvero tutto. Mentre si trova là, al capezzale, la Germania invade la Polonia e vengono chiusi i confini: tutti cittadini del Reich, perfettamente sigillati, anche Pabst. Fine della storia. Che fare? Accettare il nuovo corso e attendere o mostrarsi collaborativo e abbassare la testa pur di tornare a lavorare alle vecchie regole, quelle che si conoscono meglio?
 

“Non ho intenzione di girare altri film”, dichiara Pabst. “Risposta sbagliata,” dice il ministro del Reich. Risposta sbagliata anche pensare che a Daniel Kehlmann non interessi granché il presente. Anzi, Il regista è un romanzo che va letto oggi, soprattutto oggi, epoca di avvilenti dogmatismi in materia di saldatura tra dimensione morale dell’artista e valore artistico di ciò che fa.
 

Pabst è un Artista. Pabst è un Maestro. Pabst è un uomo esecrabile, probabilmente. Ma il “probabilmente” è il giardino in cui sbocciano tutti i grandi romanzi. E Kehlmann ce lo dimostra, con una struttura fortissima e una prosa delle più lievi e, sì, cinematografiche, in senso festosamente dickensiano – e intanto ci racconta anche la storia di un film perduto che perduto non è. Buona visione.

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