Screenshot da Youtube Associazione A.S.C

Tutto un mondo

Dal gran cinema al romanzo, Francesco Bronzi apre le porte della sua vita e della sua storia

Giuseppe Fantasia

Il nuovo libro dello scenografo napoletano è un diario intimo che apre il cuore di chi lo legge. Non assolve solo a una promessa, ma diventa così anche uno sguardo sulla tragica attualità a partire dai ricordi d'infanzia dell'autore

Parlare con Francesco Bronzi, classe 1934, napoletano di nascita e romano d’adozione, porta nell’aere un fascino antico quanto necessario che sa di bellezza, cultura ed esperienza. La sua. Nel cinema, ad esempio, dove per circa sessant’anni ha lavorato come scenografo con i più grandi registi italiani, da Gillo Pontecorvo a Dino Risi, da Giuseppe Tornatore a Robert Dornhelm, dai fratelli Taviani a Jerzy Skolimowski e, ancora, con Carlo Verdone, Alastair Reid, Alberto Rondalli, Uli Edel, Giorgio Capitani e Robert Michael Lewis e molti altri. Li citiamo tutti, perché mentre si racconta al Foglio, li nomina uno per uno, li chiama per nome, ne ricorda gesta, avventure e disavventure vissute insieme in giro per il mondo. Con Pontecorvo, ad esempio, andò in Asia, perché lì iniziarono a girare “Queimada”, un film del 1969 che mostrò alcune aberrazioni del colonialismo. Tra gli interpreti, oltre ad Evaristo Márquez, c’era Marlon Brando e l’atmosfera in quel primo set a Cartagena de Indias, in Colombia, non fu certo delle migliori, tanto da essere interrotto e poi ripreso in un altro luogo. “Tra Marlon e Pontecorvo fu l’inferno, si detestavano”, ricorda Bronzi. “Non si parlavano, se non tramite l’aiuto regista. Gillo, che era molto pignolo, gli fece fare sedici ciak di seguito. Marlon era furioso e chiese spiegazioni in merito. ‘Perché volevo che ci mettessi l’ironia’, fu la risposta. ‘Guarda che ce l’ho messa’, ribatté lui. ‘Ah si? – disse Gillo – Non me ne sono accorto’. A fine riprese Marlon andò via senza salutare”.

 
Questo è solo uno dei tanti episodi/retroscena che Bronzi ha vissuto personalmente facendo il suo lavoro, e presto, dopo le mostre dedicate ai suoi disegni, quei suoi racconti e ricordi saranno pubblicati nel libro “Il cinema come avventura”. Nel frattempo, in tutte le librerie italiane è appena uscito Il ragazzo con il cappotto di vetro pubblicato da Poderosa Edizioni, un romanzo in cui ci racconta la storia di un adolescente durante la Seconda guerra mondiale. Dettagli e ricordi personali si alternano a quelli di fantasia fino a mescolarsi e a confondersi. “L’ho scritto – come spiega lui stesso nella lettera/prefazione indirizzata a sua figlia – per tener fede alla promessa fatta al nipote che aveva chiesto come aveva vissuto in quel periodo quando era giovane come lui”. “Un periodo non certo facile che per certi aspetti, si pensi all’Ucraina e al medio oriente, ricorda quello odierno”, aggiunge a voce lui, ex professore universitario di Architettura degli interni e vincitore, tra i tanti premi, di due David di Donatello, un Ciak d’oro e un Nastro d’Argento. Il libro, un diario intimo che aprirà il cuore di chi lo legge, non assolve solo a una promessa, ma diventa così anche uno sguardo sulla tragica attualità.

 

Nelle prime pagine ci presenta un ragazzino di dieci anni che esce dalla casa di viale del parco della Regina Margherita a Napoli, perché sua madre gli ha chiesto comprare dei fiammiferi. Per difendersi dal “freddo intenso di una monotona mattina”, indossa “l’orribile cappottone con il bavero ribaltato e le tasche grandi”, un cappotto di una stoffa pesante e rigida, nel quale sprofonda, la sua divisa arrangiata. La città, ben descritta in quel suo percorso, è sotto bombardamento, un pericolo per lui e non solo, tanto che la madre, per proteggerlo, lo manda a vivere per un periodo in Toscana, da una zia e sarà lì che Napule’, come viene chiamato, scoprirà un mondo altro ben diverso da quello cittadino che ha lasciato. “Il romanzo è frutto della mia immaginazione insieme a verità”, precisa l’autore che visse un’esperienza simile. “I ricordi possono apparire un po’ sbiaditi, ma se chiudo gli occhi e faccio un salto indietro, certe immagini ritornano vive come per magia”. “Nel 1943 – continua – quel mondo in campagna era come nell’Ottocento, senza luce né acqua e gli anni Sessanta con la modernità erano ben lontani”. Un mondo primitivo dove si cresceva in fretta, come dimostra Gualtiero, personaggio-chiave del libro per il suo protagonista (insieme alla bella Margherita di cui si innamora in un campo di fave), la sua guida alla vita e alla sopravvivenza, il “maestro” che gli insegnerà come lavorare la terra, come uccidere una gallina o i conigli, che diventano a loro volta degli “involontari maestri di vita sessuale”. “In quel mondo – conclude – non c’era futuro, ma noi che l’abbiamo vissuto non ci siamo mai arresi, perché è proprio quando non possiedi nulla che cerchi a tutti i costi di procurarti il futuro”. 

 

Di più su questi argomenti: