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Jung e la casa delle passioni
Una moglie-madre, un’amante scontrosa, figlie e figlio, statue e idoli. Viaggio nei luoghi dello psicoanalista svizzero
Vista dal lago è una grande casa come la disegnano i bambini: un rettangolo con un bel tetto spiovente con tanto di comignolo laterale e abbaino centrale. Vista dalla strada, la Seestrasse al numero 228, a Küsnacht, è prima di tutto una torre, incastonata nel resto dell’edificio, che si protende centrale ad accogliere il visitatore in fondo a un largo e lungo vialetto, in mezzo ad alberi alti e cespugli tondeggianti, che però – ai tempi degli antichi proprietari – non c’erano ancora. Gli antichi proprietari, quelli che questa casa hanno sognato, disegnato e costruito erano Carl Gustav Jung e sua moglie Emma Rauschenbach. Oggi è ancora abitata dagli eredi che però, superate finalmente varie complicazioni burocratiche e famigliari, l’hanno resa in parte un museo. E così in due giorni della settimana purché non festivi, il giovedì (dalle 13.30 alle 17) e il sabato, ma solo due volte al mese e dalle 11 alle 15, si può varcare la soglia dove sta inciso il motto: Vocatus atque non vocatus deus aderit (invocato o no, dio sarà presente). I visitatori sono tanti, da ogni parte del mondo, a testimoniare la forza del richiamo sempre molto forte che il celebre psicanalista svizzero continua a esercitare su ammiratori o semplici curiosi.
La cittadina di Küsnacht si trova a soli otto chilometri da Zurigo da cui si raggiunge in un quarto d’ora di treno. Ci si arriva pure in vaporetto e dal vaporetto si può vedere bene la facciata sul lago, perché villa Jung è vicinissima all’acqua, mentre sulla sponda opposta le case s’inerpicano sul pendio collinare nascoste nel verde. Subito sotto il palazzo c’è un piccolo attracco privato per le barche (Jung era un esperto velista) davanti a una spaziosa rimessa e, un po’ più in alto, un locale per le varie attrezzature, dove sembra che “il professore” si nascondesse con la sua amante di una vita, Toni (Antonia) Wolff, a fare pericolosamente l’amore nel primo periodo della loro relazione, quando la passione era ingovernabile e non ancora alla luce del sole. Più avanti persino Emma si sarebbe arresa e l’avrebbe accettata. “Per mia disgrazia non posso fare a meno nella vita della felicità dell’amore, dell’amore impetuoso, estremamente mutevole”, aveva scritto il 4 dicembre del 1908 a Sabina Spielrein, altro travolgente amore dei suoi trent’anni.
Dunque, per visitare casa Jung, si entra dalla Seestrasse, la strada principale che da Zurigo corre verso la punta sud-est del lago per una quarantina di chilometri fino a Bollingen, dove c’è un’altra casa di Jung, più segreta, che non è un museo, e chissà se mai lo sarà. E questa storia delle due dimore, una borghese dove si svolgeva la vita professionale, sociale e famigliare, e l’altra “dell’anima”, selvatica, per molto tempo senza acqua corrente e senza luce elettrica, è già un ritratto dell’uomo, dichiaratamente scisso fra due personalità e una perenne dualità nello stare al mondo: terra e cielo, materia e spirito, normalità e follia, nonché coinvolto in due storie affettive fondamentali e parallele, quella con Emma e quella con Toni. Più le altre.
Non deve essere stato facile nel 1909 per il giovane architetto Ernst Fiechter, cugino di Carl, assecondarne le idee, precise quanto stravaganti, su come doveva plasmare la residenza di cui non esisteva all’inizio nemmeno una pietra. La coppia aveva infatti acquistato il terreno, anzi per la verità era stato il ricco padre di lei ad acquistarlo, e Carl non faceva che buttar giù progetti e bozzetti di come sognava dovesse prendere forma: più simile a un castello che a un palazzo. Avevano del resto bisogno di molto spazio, gli Jung, questo era chiaro: avevano già tre figlie, un altro in arrivo, cui in un breve futuro sarebbe seguita una quinta bambina. Carl, con la moglie, diversamente da come avrebbe fatto con le amanti, non prendeva alcuna precauzione. Voleva essere un patriarca oltre che una specie di castellano. Così la casa finì per aver poco a vedere con le fattorie e le ville dei dintorni, eppure riesce a conservare, nella sua maestosità, una caratteristica sobria e accogliente e una simpatia sorridente da casa di fate con quella torre-faro che s’incastra nella costruzione rettangolare come il campanile di una chiesa e che si fa subito notare dall’ammirato visitatore, fin da quando imbocca il vialetto una volta varcato il cancello al 228 e si ferma a leggere la frase incisa sopra il portone principale: Vocatus atque non vocatus… Spiegò Jung in un’intervista: “Misi quell’iscrizione per ricordare ai miei pazienti e a me stesso che il timore di Dio è l’inizio della sapienza” (lo dicono i Salmi). E del resto era convinto che “tutti i fenomeni religiosi, che non siano meri rituali della Chiesa, sono strettamente intrecciati con le emozioni”.
Poi si entra in un ampio ingresso in cui s’inerpica una scala di marmo e di legno che va ai piani superiori adattandosi, squadrandola, alla rotondità esterna della torre. Ma, prima di salirla, ecco di fronte all’entrata il grande soggiorno, cuore della vita di famiglia: uno spazioso tavolo da pranzo dove si sedevano insieme tutti, genitori, figli e spesso anche Toni che da paziente di Jung era diventata a sua volta analista e sua principale collaboratrice, per cui quasi quotidianamente lo raggiungeva nello studio per lavorare, e spesso restava a pranzo. Emma faceva buon viso a cattivo gioco, era una donna molto educata, tradizionalista, e teneva più che a ogni altra cosa al marito, un uomo capace di essere fedele solo al progetto di sé e che, sempre alla Spielrein, aveva scritto: “Quando l’amore per una donna si sveglia in me, allora il mio primo sentimento è la commiserazione, la compassione per la povera donna che sogna la fedeltà eterna e altre cose impossibili, ed è destinata a un risveglio doloroso”. Emma sapeva evidentemente molto bene con chi avesse a che fare e dormiva, in fondo, sonni tranquilli. Lei occupava ormai un posto esclusivo che nessuna avrebbe scalzato, a patto di concedere a Carl tutta la libertà di cui aveva un disperato bisogno per sperimentare le proprie teorie prima di tutto su se stesso.
E così chissà quante volte Toni si sarà seduta a mangiare a quella grande tavola rettangolare, mal sopportata pure dalle figlie della coppia, Agatha, Anne, Marianne, Lil e, soprattutto, dal figlio maschio, Franz, che adorava la madre e spesso trattava con sufficienza, quando non con manifesto dileggio, quella strana “zietta” che sacrificava il suo destino al loro padre distratto, malinconica e onnipresente, che odiava il sole proteggendosi con occhiali scurissimi e fumava ininterrottamente. Al contrario di Emma, Toni non aveva la capacità di rendersi simpatica, era introversa e autoriferita, silenziosa, scontrosa. Finito il pranzo, preso il caffè, Toni e Carl tornavano al piano superiore nel sancta sanctorum dove anche il visitatore oggi può entrare, la piccola stanza dove Jung si sedeva alla scrivania a studiare o comporre le sue opere avendo sulla parete di fronte uno dei suoi mandala indiani e, su un ripiano, la statua di un Budda meditante. Sono ancora lì, l’una e l’altro, come i vetri istoriati alle finestre che danno sul lago e la poltrona dove si sedeva Toni o i rari pazienti eccezionalmente ammessi (non li faceva stendere sul lettino come Freud, col quale aveva rotto i rapporti tempestosamente fra il 1912 e il 1913. Preferiva il vis-à-vis). Le foto incorniciate sul tavolo, una di Emma e una di Toni, saranno sempre state lì o ce le hanno messe a beneficio dei visitatori? La stanza accanto è la biblioteca con una grande stufa a legna di ceramica verde e bianca, e tante librerie piene zeppe di libri.
Qui riceveva la maggior parte dei pazienti, i colleghi, le personalità che venivano a trovarlo e a conferire con lui. Ci sono poltrone e un divano sistemati in diverse posizioni in modo da poter scegliere se guardare o no l’acqua. E poi i busti di Nietzsche e di Voltaire. Ma il suo eroe preferito era Omero, la cui statua trionfa in un angolo della splendida veranda al pianoterra e anzi una fotografia immortala uno Jung molto anziano con l’immancabile pipa fra le mani che guarda Omero dritto negli occhi. Dalla veranda si scende in giardino dove ci s’imbatte in una sua curiosa scultura, era uno dei suoi hobby scolpire: rappresenta un buffo personaggio imprigionato in una specie di colonna, ha il volto di un vecchio saggio e sette braccia intorno al corpo. E’ Atmavictu, che vuol dire “soffio interiore” uno dei suoi daimon, “quello che ci costringe a imboccare la via, il piccolo dio individuale, lo Shiva interiore”, spiegò lui stesso in La psicologia del kundalini. Si rimise all’opera anche in morte delle sue donne: una scultura per Toni, nel 1953, e una per Emma che morì due anni e mezzo dopo. Ma se la scomparsa di Toni, improvvisa, durante la notte, nella casa dove viveva sola, fu forse una specie di liberazione e Carl non andò nemmeno al funerale sostenendo di essere troppo sconvolto, la morte di Emma, per un tumore che si era diffuso ovunque, lo devastò a lungo, senza impedirgli però di partecipare alle esequie.
E Emma, come era stata protettiva in vita, lo fu anche dopo la morte. Nel senso che aveva predisposto ogni cosa perché quell’uomo, incapace di badare a sé, fosse assistito da qualcuno affidabile pure dopo la scomparsa di quella sua moglie-madre. E individuò la persona adatta in un’amica inglese di entrambi, Ruth Bailey, un’ex viaggiatrice, indipendente e single, un po’ più giovane di loro, che Carl aveva conosciuto durante uno dei suoi avventurosi viaggi e con la quale non risulta avesse avuto coinvolgimenti erotico-sentimentali. E così Ruth si trasferì a Küsnacht restandogli accanto fino alla morte, avvenuta il 6 giugno del 1961, dimostrandosi una compagnia indispensabile nelle questioni pratiche quotidiane, ma anche culturalmente alla sua altezza.
Quando poi, terminata la visita, ci si ritrova nello spogliatoio accanto all’ingresso e ci s’imbatte in due vecchie giacche appese all’attaccapanni che sono una, più piccola e di lana scolorita, di Emma e l’altra di Carl, grossa e sformata, da contadino, non si può non pensare a quanto quella coppia fosse fuori e dentro gli schemi a un tempo, e di quanto amore coniugale deve essere stata capace, che vuol dire scambio, affetto, sopportazione, comprensione, sostegno, ascolto, perdono, ma da parte di entrambi.
Non si può però arrivare fino a Küsnacht per vedere questa casa-museo, senza spingersi – tornando indietro nella direzione di Zurigo di nemmeno un chilometro o poco più – all’Istituto Jung, tuttora in attività e fondato dallo stesso Jung nel 1948 per formare analisti, tenere incontri e fornire spazi per le sedute a chi ne avesse bisogno. Si trova sempre sul lago, all’interno di un altro piacevolissimo giardino. Fu lo stesso Jung a dirigerlo fino alla morte, che lo raggiunse un mese e mezzo prima del suo ottantaseiesimo compleanno. E all’interno una splendida biblioteca di quindicimila testi e periodici relativi alla psicologia analitica.
A pochissima distanza dall’Istituto, volendo, c’è l’Hotel Sonne, che nella leggenda junghiana occupa un posto di rilievo. Qui risiedevano durante la terapia molti pazienti che venivano da lontano (tanti erano americani) e che non si limitavano a occuparne le romantiche stanze o a intrattenersi nei salottini pieni di opere d’arte. Nella bella stagione invadevano la terrazza, dove ancora oggi si può sedere a mangiare un toast o un hamburger incantandosi a guardare l’acqua azzurra, e si mettevano eccitatissimi a scambiarsi racconti delle loro sedute con il dottor Jung e, soprattutto, praticavano la cosiddetta “immaginazione attiva”. Ovvero si lanciavano ad alta voce da un tavolino all’altro visioni e sogni elaborando e incrociando le loro libere associazioni e sentendosi sicuramente fortunatissimi di essere in cura da un Mito.
Personalmente, lo confesso, ho fatto ancora peggio. Oltre ad aver prenotato e dormito al Sonne, mi sono messa in macchina e sono arrivata a Bollingen. Qui, chiedendo informazioni, ho facilmente individuato la casa-fortezza o casa-torre costruita da Jung con le sue mani e con l’aiuto di due operai italiani. Poco più di una capanna all’inizio, ma destinata a ingrandirsi nel tempo. Non è un museo, perché tuttora proprietà di nipoti che l’hanno ereditata. Dal lago se ne vede bene la struttura a tre torri. La prima risale al 1923, l’ultima al ‘56. Vi si ritirava in perfetta solitudine perché quando proprio non intendeva ricevere nessuno, innalzava sul tetto un’asta improvvisata con una bandiera bianca. Sosteneva infatti: “Il parlare è per me sempre più spesso uno strazio, e frequentemente ho bisogno di un silenzio di parecchi giorni per riprendermi dalla futilità delle parole” (lettera del 30 maggio 1957).
Il cancello della recinzione era spalancato. Un invito irresistibile a farmi avanti. Mi ritrovo in un giardino molto diverso da quello della Seestrasse di Küsnacht, più selvatico, dove vedo altre sculture. Saranno quelle che nella casa-museo avevo cercato invano? Quella per Toni, con incise foglie di ginkgo biloba e le parole “Lotus. Nun. Mysterious” e quella per Emma con un fuoco che arde all’interno d’un tempio, che è casa, terra, universo… All’amico Laurens van der Post Carl Gustav aveva detto che Emma rappresentava “le fondamenta della casa”, mentre Toni ne era stata “il profumo”.
Chissà, non ho il tempo di controllare quali sculture sono queste. Mi sono spinta fin nel cortile davanti alla cucina dove vedo un forno in pietra e sento voci e rumori venire dall’interno. Forse sono abituati a pazzi e ficcanaso che s’intrufolano in casa e non corro il rischio di essere consegnata alla polizia, ma meglio non rischiare.
Sento dei passi avvicinarsi…
E’ decisamente tempo di battere in ritirata.