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Critica letteraria

L'orso Pontiggia alla ricerca del miele nella grande arnia dell'editoria

Cristina Marconi

Le sue schede di lettura pubblicate da Palingenia nel magnifico “Un libro che divorerei” sono una selezione vertiginosa di giudizi sintetici scritti tra gli anni Settanta e i Novanta per Mondadori e Adelphi. Taglienti, a tratti spietati ma mai ideologici

"Aspettarsi un giudizio obbiettivo da me, su un libro simile, è come chiedere a un orso cosa pensa del miele”. Da lettore, Giuseppe Pontiggia pretende almeno un lampo di quell’appagamento senza ombre che aveva provato da piccolo quando, bloccato a letto da una malattia, aveva iniziato la sua lunga, appassionata consuetudine con il mondo dei volumi e delle storie. E la ricerca del miele da parte dell’orso è ben visibile nelle schede di lettura pubblicate da Palingenia nello strepitoso “Un libro che divorerei” (320 pp., 30 euro), a cura di Daniela Marcheschi, selezione vertiginosa di giudizi sintetici scritti tra gli anni Settanta e i Novanta per Mondadori e per Adelphi. Taglienti, a tratti spietati ma mai ideologici: i più maltrattati sono i libri senza sorpresa, quelli “decorosamente didascalici”, o quelli in cui “si capisce dove vuole arrivare e dove invariabilmente arriva” l’autore. Per non parlare di “quell’estetismo vaticinante che ci riserva tutto tranne rivelazioni”, magari sulla scia di “D’Annunzio, questo Monte di Pietà da cui gli scrittori italiani non riescono mai a riscattare i pegni”, o dei poeti inclini a “impennate sapienziali” o “arabeschi frigidi e gratuiti”. Si scopre della sua passione per Isaac Bashevis Singer, “il narratore che io amo di più nel Novecento, non aggiungo altro”, e si esulta davanti alla ricerca di “quel qualcosa di nuovo, di sconcertante, di singolare, che vorremmo trovare non tanto nei libri in generale, quanto nei pochi che pubblichiamo”.

Purtroppo, non capita spesso, anzi, è più probabile che si trovi la “letteratura finta”, molto di moda perché sa “diluire i sapori della narrazione in quella pappa omogeneizzata che viene propinata come dieta a un pubblico disappetente, che ha troppi problemi di digestione”. Pontiggia è il miglior avvocato della vasta categoria dei lettori, creature che conosce in ogni piega. Difficile non esultare quando scrive di quei romanzi che “minacciano continuamente il miracolo espressivo, senza mai darcelo, ma dandoci invece il sospetto di essercelo lasciato sfuggire e l’apprensione che un altro lo sappia cogliere”. E quindi c’è prima la rilettura inquieta per capire se l’autrice sia una Madame de Sevigné – e non lo è – e poi la lettura immaginaria per calarsi nei panni di un altro lettore e concludere che sì, a lui potrebbe piacere. E pazienza se il gusto del finto ha sostituito il sano gusto della finzione, le perle e le sorprese si trovano sempre, e magari è un libro sui castelli di sabbia, o un libro “che vorrei comprare due volte”, come Édition et sédition di Robert Darnton, per quel suo raccontare dell’amore dell’avventura editoriale, nella sua “ricchezza terribile e temibile”, “incomparabile con l’ottusità della moderna vetrina del libro”. Nabokov diceva che “la sede del piacere artistico è tra le scapole” e la penna di Pontiggia è un sismografo al servizio di questa rilevazione delicata, che in ogni riga raggiunge la qualità tanto ambita e rara, la “naturalezza serenamente sconvolgente dei classici”, che tocca ogni pagina, anche quando il testo di cui parla è brutto e gli permette di concludere serafico: “Non penso che a non pubblicarlo si debbano poi provare rimorsi”.

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