facce dispari

Laura Trisorio, l'arte al cinema tra politica e intelligenza artificiale

Francesco Palmieri

La gallerista dirige Artecinema, rassegna internazionale della filmografia dedicata all’arte, fotografia e architettura, dal 16 al 20 ottobre a Napoli. Dialogo su Gaetano Pesce, le Pussy Riot e Joseph Beuys

Come lo yang s’avvicenda allo yin, nella napoletana piazza Municipio un imponente Pulcinella fallico di Gaetano Pesce ha preso il posto della Venere degli stracci di Pistoletto, già protagonista di tribolata esposizione. Sulla foggia della nuova installazione è divampata una sapida diatriba, con battute da trivio pompeiano (dove Priapo, si sa, fu popolare) alternate a rarefatte considerazioni sull’arte contemporanea e le matrici etnofilosofiche del Pulcinella, di cui difficilmente riconoscerebbero le sembianze in quell’opera i suoi più arguti cultori, da Croce ad Agamben ad Antonio Petito che lo impersonò,

Il dibattito colora la vigilia della ventinovesima edizione di Artecinema, rassegna internazionale della filmografia dedicata all’arte, fotografia e architettura che si tiene dal 16 al 20 ottobre a Napoli diretta da Laura Trisorio, animatrice di una galleria il cui cinquantesimo compleanno cade proprio, per volontà delle effemeridi, il 16 prossimo. Lo Studio Trisorio fondato dai genitori di Laura ospitò Alighiero Boetti, Cy Twombly, Jannis Kounellis, Joseph Beuys, non soltanto esposti ma accolti nella dimora di famiglia ad Anacapri. Villa Orlandi diventò uno spazio dove lavorare e fu al suo ingresso che Beuys realizzò “La rivoluzione siamo Noi”.

Perdoni se la prima domanda riguarda Pulcinella, ma l’attualità è una dea prepotente.

Quello che s’inaugurò con la “Montagna di Sale” di Mimmo Paladino in piazza Plebiscito è stato un filone di successo, ma piazza Municipio è uno spazio immenso e più complicato ed è sbagliato non contestualizzare un’opera: il luogo in cui viene collocata è determinante e il criterio andrebbe ristudiato. Il dibattito testimonia comunque l’attenzione per l’arte pubblica in una città dove sono passati i maggiori esponenti contemporanei. La longevità di Artecinema è un esempio di quest’interesse. La prima edizione fu all’Istituto Francese, che disponeva di trecento sedie. Dopo tre anni non bastarono e ci spostammo in teatri più grandi finché siamo arrivati al San Carlo per la giornata inaugurale e per le successive all’Augusteo, da 1.400 posti, dove l’entrata è sempre gratuita.

Quale film inaugurerà la rassegna?

“Tehachapi”, dedicato al progetto realizzato dall’artista francese JR in una prigione di massima sicurezza californiana: ritratti e storie che hanno accomunato detenuti e personale carcerario in una collaborazione artistica. Nei giorni seguenti sarà proiettato in anteprima europea un documentario su Rothko e in anteprima italiana “The Warhol Effect” di Lloyd Stanton e Paul Toogood, rivelando l’artista in una nuova prospettiva, quella delle opere tarde.

Quanto si sta occupando l’arte dei temi politici?

Proietteremo “Soviet Barbara, The Story of Ragnar Kjartansson in Moscow” dell’islandese Gaukur Ulfarsson. È il racconto di un artista che ha rimesso in scena, in un centro d’arte moscovita poco prima dell’invasione dell’Ucraina, la soap opera americana “Santa Barbara”. Fu con quella che il popolo dell’Urss appena dissolta aveva scoperto con stupore, su larga scala, i modelli di vita occidentali. Poi c’è il film “Pussy Riot. Rage Against Putin”, sulle artiste dissidenti finite in carcere per le loro performance. L’arte come strumento della politica è raccontata anche nel documentario di Amei Wallach dedicato a Rauschenberg, che rievoca come il governo americano se ne servì durante la Guerra fredda in funzione anticomunista con l’attribuzione del Gran Premio alla Biennale di Venezia del 1964. Che sancì la Pop art in Europa.

Volgendo lo sguardo in avanti, cosa paventa o spera un gallerista?

Rifletto sull’Intelligenza artificiale. Il collettivo francese Obvious con gli algoritmi realizza quadri battuti dalle case d’asta internazionali a cifre consistenti.

Dove andremo a finire?

Il responso spetterà al mercato. Potrà far crescere ancora le opere prodotte con l’Intelligenza artificiale o sgonfiarne le quotazioni, con le stesse dinamiche speculative riguardanti gli artisti in carne e ossa. È ovvio che propendo per il fattore umano: dietro ogni opera ci sono relazioni ed emozioni insostituibili.

Chi si occupa di arte contemporanea vive assieme ai nomi che sostiene. È un percorso più tracciato dal valore o dai riscontri commerciali?

Ho rincontrato pochi giorni fa a Parigi, ormai vecchi, grandi rappresentanti dell’Arte povera che avevo conosciuto da bambina. Le loro quotazioni aumentano perché è arrivata la consacrazione presso i collezionisti. Ci hanno impiegato una vita, ma il tempo premia il valore. Si può aiutare un artista con le relazioni giuste nei musei, con i critici e intercettando il gusto dei collezionisti, però a patto che sia bravo. E anche questa è condizione necessaria e non sufficiente, perché c’è chi vale ma per varie circostanze incontra minore fortuna. È come per i libri: ce ne sono di meravigliosi ma pubblicati male, perciò non diventeranno bestseller.

Consigli a un gallerista?

Lavorare con gli artisti che gli piacciono davvero senza fissarsi sul guadagno immediato. Si soffre e si gioisce con loro, ma non ci si sente mai arrivati. Neanche il successo addormenta la tensione inappagata che spinge sempre avanti. Gli artisti anticipano i tempi, vedono ciò che ancora non vediamo noi.

Non ha mai esitato a seguire le tracce dei suoi genitori?

Conservo la fotografia di una tavolata. Avevo quattro anni. Io e Beuys ci tendiamo una mano, Lucio Amelio mi carezza la testa, mia madre mi tocca un braccio. È la scena di una iniziazione senza alternative.

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