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Lirica

Sublime “Rosenkavalier” alla Scala con il direttore dei Berliner sul podio

Alberto Mattioli

Alla prima al teatro di Milano, il maestro Kirill Petrenko ha trionfato con "Il cavaliere della rosa" facendo battere i cuori grazie all'incedere nervoso ed elettrico dei momenti di commedia "pura" e rendendo omaggio alla Vienna eterna

Festa grande per il Rosenkavalier a Milano. Pubblico in estasi, straussiani aux anges, vecchi abbonati che ammettono di non rimpiangere Kleiber, appagati perfino i malefici turisti fra un selfie e l’altro, insomma giubilo generale e collettivo, anche per chi è solito spaccare il capello, e anche altro, in quattro. Merito di Kirill Petrenko, direttore principale dei Berliner, alla prima opera alla Scala, bacchetta che oggi davvero gioca in un’altra categoria. E infatti mai sentita l’Orchestra della Scala suonare così, con questa trasparenza setosa e scintillante, morbida e scattante insieme. Ma non è solo una direzione tecnicamente stratosferica. E’ anche, per certi aspetti, rivelatrice: Il cavaliere della rosa è anche una commedia. D’accordo, si scopre l’acqua calda. E naturalmente i grandi momenti di nostalgia kakania e sublimità mitteleuropee nell’Impero già rimpianto quando ancora stava più o meno in piedi ci sono tutti, e con le previste commozioni: il monologo della Marescialla, la presentazione della rosa, il finalone crepuscolare dove davvero si fa fatica a trattenere la lacrima, tutti perfetti, celestiali, commossi ma non spampanati.

Ma dove Petrenko colpisce è nell’incedere nervoso ed elettrico, già tutto novecentesco, dei momenti di commedia “pura”. Come l’orchestra prepara l’ingresso di Ochs nel primo atto è un capolavoro non solo musicale, ma drammaturgico: idem la frenesia danzante ma sottilmente inquietante dell’ultimo atto. I tempi, in effetti, mi sembrano nel segno della tradizione, non particolarmente incalzanti. Ma lo diventano nell’urgenza del racconto. Insomma, un capolavoro, l’avete capito, con tutta la Scala ad applaudire questo folletto che alla ribalta appariva contento, un largo sorriso sulla faccia da topino che ha appena divorato il formaggio. E tutti: se ci prende a benvolere (è successo per esempio con l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai) magari torna, speriamo, accendiamo candeline, facciam voti…

Rapiti dalla meraviglia che straripa dalla buca in sala, il resto passa fatalmente in secondo piano. Lo spettacolo di Harry Kupfer, importato da Salisburgo, torna alla Scala per la seconda volta. È un omaggio alla Vienna eterna, dove l’azione passa dall’epoca di Maria Teresa a quella del Ring (inteso come viale, non come Tetralogia, ma gli anni sono più o meno quelli), con grandi gigantografie in bianco e nero della Neue Hofburg, e anche per la verità di quella vecchia, o del Kunsthistorisches Museum che fanno da sfondo alle scene elegantemente allusive di Hans Schavernoch. Nulla di destabilizzante: una messinscena classica, bella, senza sorprese. Nel finale arriva pure una Rolls d’epoca che piace sempre tanto. L’usato sicuro, insomma. Compagnia piuttosto buona.

Cominciamo dalla fine: solidissimi Faninal, Michael Kraus, e Marianne, Caroline Wenborne, e in generale i comprimari. Eccellente Sabrine Devieilhe come Sophie: la voce sarà pure un po’ piccina per la Scala, ma è usata con giudizio, il do acuto in pianissimo è una delizia e lei è incantevole anche da vedere. Kate Lindsey non è altrettanto impeccabile, specie per un registro acuto talvolta fisso, ma nel complesso risulta un Octavian molto convincente. Günther Groissböck è l’Ochs dei giorni nostri. Mi è sembrato forse un po’ usurato, ma la sua interpretazione è sempre da manuale e nemmeno scontata, perché l’idea di fare un barone “cattivo” e non solo cafone è giusta: troppo spesso il pubblico viene portato a simpatizzare con un personaggio che dovrebbe invece detestare. Per finire, Krassimira Stoyanova come Marescialla. Canta ancora benissimo, la voce conserva il bel timbro cremoso, pianissimi e sfumature sono impeccabili, dunque chapeau. Personalmente, trovo tuttavia che manchi un po’ di allure, anche se ero seduto troppo dietro per vederle le mani. Già. Maria Reining, la protagonista di Kleiber padre, stroncava Elisabeth Schwarzkopf, quella di Karajan, sostenendo che non poteva essere una grande Marescialla perché aveva delle brutte mani (e comunque, date retta a un cretino: la più grande di tutte, e sono molte, è Lisa Della Casa). 

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