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Opera

Due perle musicali: “Peter Grimes” a Roma e il doppio “Giro di vite” a Genova. Da non perdere

Alberto Mattioli

Il compositore e direttore d'orchestra britannico è il più grande operista del dopoguerra e arrivano in Italia le opere ispirate al poema "The Borough" di George Crabbe e a "The turn of the screw" di Henry James

Più Britten per tutti? Va benissimo: è il più grande operista del dopoguerra, non ne avremo mai abbastanza, e paiono definitivamente superate perfino le antiche scomuniche per mancata avanguardia e lesa Darmstadt. In contemporanea, alla faccia degli scioperi dei treni, Peter Grimes a Roma e The turn of the screw a Genova. Al Costanzi il titolone che nel 1945 rivelò agli inglesi che anche loro potevano avere un’opera, e che opera, è stato messo in scena come meglio non si potrebbe da Deborah Warner, teatro anglosassone che più anglosassone non si può, niente Konzept e riletture ma recitazione e solo recitazione, e che recitazione, dal protagonista all’ultimo corista. E tuttavia senza realismo spicciolo, quindi con una scena astratta (e costumi contemporanei, ça va sans dire) e la grande idea di un acrobata che si contorce lassù in aria, il mozzo di Peter o Peter stesso che affoga in mare, uno dei due veri protagonisti.

L’altro è il Borgo, dove le figurine “tipiche” da giallo campagnolo della Christie svelano la ferocia del conformismo, tutte perfettamente delineate nelle loro individualità e tuttavia compatte nella caccia al diverso. Ma lo spettacolo non sarebbe così memorabile senza la direzione di Michele Mariotti, al primo Britten che speriamo non sia l’ultimo, estremamente asciutta, attentamente calibrata eppure così stranamente commovente quando la musica diventa lirica, vedi l’arioso delle Pleiadi, straordinario. L’Orchestra si supera, il Coro di Ciro Visco anche, i comprimari “made in Uk” sono strepitosi (gente come Clive Bayley, Jacques Imbrailo o John Graham-Hall di solito in Britten canta le prime parti). Il protagonista, Allan Clayton, ha il fisico di un orco e la voce di un angelo, dunque, è perfetto. Sir Simon Keenlyside, Balstrode, spilla ancora pinte di carisma; Sophie Bevan è forse un po’ leggerina per Ellen. Da quest’opera angosciosa si esce turbati come si deve.

A Genova fanno invece un’operazione vincente e insolita, poiché in Italia, si sa, nulla è più strano dell’ovvio: un’inaugurazione congiunta prosa-opera, joint venture fra Nazionale e Carlo Felice all’insegna del Giro di vite, prima parlato e poi cantato, nella stessa sede, l’Ivo Chiesa, e con lo stesso regista, Davide Livermore. Idea ottima, perché uno dei problemi dei nostri teatri è che gli spettatori della lirica non vanno alla prosa e viceversa, il che spiega fra l’altro perché nessuno si aspetti ancora un Amleto in brache nere a sbuffo e collarino bianco, mentre se vesti una Violetta in minigonna si arrabbiano subito tutti. Naturalmente, mettere in scena Henry James è un problema. L’adattamento di Carlo Sciaccaluga, molto libero, gli dà un ritmo incalzante e inatteso, e l’Istitutrice di Linda Gennari è davvero bravissima.

All’opera, naturalmente, il lavoro l’hanno già fatto Britten e la sua librettista Myfanwy Piper, costruendo un capolavoro che è il trionfo dell’ambiguità: i fantasmi sono davvero tali o proiezioni della fantasia? E cos’è successo fra loro e i due pargoli? Insomma, ghost story o seduta psicanalitica? Qui, ovvio, la musica batte la parola, perché riesce a esprimere il non detto. Specie poi come la dirige Riccardo Minasi, con una concertazione estremamente analitica e precisa, senza troppe sottolineature, e funziona benissimo così. Quasi impeccabili i sedici strumentisti, idem la compagnia, specie la protagonista Karen Gardeazabal, mentre i melismi di Valentino Buzza-Quint dovrebbero essere più precisi e più algidi, quindi più agghiaccianti. Miles, Oliver Barlow, è bravissimo e anche fortunato: fosse nato un paio di secoli fa e in Italia, si sarebbero subito presi provvedimenti per preservargli la sua graziosa vocina, un taglio e via. Quanto a Davide Livermore, stavolta non stupisce con effetti speciali, a parte far sedere i cantanti su poltrone appese altissime sui muri, come nella remota Fiaba dello Zar Saltan di Ronconi. E’ tutto un andare e venire di quinte mobili che delimitano spazi sempre più claustrofobici, labirinti mentali dove si perde la ragione, ritratti di famiglia in un inferno: Britten, insomma.

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