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Napoli e dintorni, 1944

Tammurriata nera: storia di una canzone e dei figli della guerra

Francesco Palmieri

Soldati americani che scomparivano, adolescenti divenute precocemente donne, e coraggiose. Nicolardi e Mario seppero raccontare il dramma con ironia in un brano dalle mille reincarnazioni

Incongrui come certi sogni, i precetti materni di una volta suggerivano alle figlie di non indugiare su visioni sgradite per evitare che la creta nubile se ne imprimesse. Il richiamo a un arcano potere degli occhi, riconosciuto dalle fattucchiere analfabete dei Quartieri, dal sapiente Giambattista Della Porta e dall’illuminista Nicola Valletta s’infranse tra lo scetticismo e l’ironia in quella seconda metà del 1944, quando a Napoli cominciarono a registrarsi le nascite di bambini “neri neri”, frutto della presenza dei soldati di colore americani. Furono rapporti occasionali, mercenari, ma anche fidanzamenti intrisi di illusorie aspettative. Sicuramente, poco ne avremmo saputo e meno ne rammenteremmo se una canzone non li avesse tramandati.


Senza Tammurriata nera, ottant’anni compiuti nel 2024 ma non dimostrati, la memoria di quei “figli della guerra” si sarebbe disseccata lungo flebili rivoli famigliari dopo l’inevitabile pubblicità del momento, quando qualche partoriente cercò davvero di spiegare il colore del neonato con la circostanza che a volte “basta sulo ’na guardata” e la “femmina” rimane “sott’’a botta ’mpressiunata”. Demolita da uno sfottente “Seh! ’Na guardata, seh…”, la presunzione di innocenza veniva convertita nell’esortazione a individuare chi, nove mesi prima, avesse colto bene “il tiro” (che rimava con “niro” e con “Giro”, ossia Ciro, ma nessun rimedio onomastico poté camuffare le paternità esotiche). Con altra disinvoltura se la cavavano le mamme di “creature” dall’incarnato sassone e dai prevedibili occhi azzurri, perché potevano celare la colpa con più facilità. Più che per la pelle, era a causa dei pettegolezzi che il bimbo nero imbarazzava, né un intento discriminatorio fu mai ammesso dagli autori della Tammurriata, due nomi celebri: Edoardo Nicolardi scrisse le parole, E. A. Mario (pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta) mise le note. Eppure il musicista James Senese ha sempre accusato quel testo di razzismo: figlio della guerra, memore dell’ardua infanzia da “nero napoletano”, Senese negli anni Sessanta e Settanta fu tra i frequentatori dei night per americani vicini al porto, incubatori di rivoluzioni artistiche da cui sarebbe sbocciato anche Pino Daniele. A chi era troppo giovane per ricordare la guerra provvedevano i racconti, la vista dei palazzi sventrati rimasti su via Marina, le navi della Sesta Flotta nella rada, gli indumenti americani comprati al mercato di Resina e la presenza del Comando Nato a Bagnoli, dove le notti erano ancora fiammeggiate dalle ciminiere degli incessanti altiforni Italsider, un pezzo di panorama descritto da Nanni Loy nel film Mi manda Picone del 1984.

 


Quattro anni prima era uscito il terzo album di Pino Daniele, giudicato pure tra i più belli: Nero a metà non era solamente il titolo ma uno slogan, una visione della vita. Lo dedicò a un musicista morto giovanissimo pochi mesi prima e che a dispetto del tempo è ancora ricordato (a Piscinola, il suo quartiere, gli hanno intestato il parco pubblico): Mario Musella nacque nel 1945 da madre napoletana e padre di stirpe cherokee, il quale ripartì senza mandare più notizie. Solo quando Mario compì dieci anni arrivò una lettera dagli Stati Uniti che informava della morte del militare mentre combatteva in Giappone. Russel B. Locklear aveva fatto in tempo a ragguagliare i parenti di quell’amore e loro avevano impiegato dieci anni per rintracciare la napoletana abbandonata.


Nel ’67 Musella e Senese, l’indiano e il nero, fondarono il gruppo musicale The Showmen, che pure avrebbe lasciato una traccia sulla scena locale e nazionale. Finiva in musica quel che con la musica era cominciato per una generazione di pochi anni successiva agli sciuscià e allo scugnizzo che in Paisà di Rossellini ruba tra le macerie gli scarponi al soldato di colore ubriaco. Fu una generazione figlia delle adolescenti divenute precocemente donne e mamme, di cui la storica Gabriella Gribaudi raccolse le testimonianze quando ormai anziane ricordavano di avere riso tanto sui balconi al primo bombardamento inglese. Tre giorni dopo la dichiarazione di guerra, il 13 giugno 1940, considerarono il preludio dimostrativo della Raf sui cieli di Napoli alla stregua dei fuochi artificiali per la festa di sant’Antonio, mai immaginando le devastazioni delle oltre duecento successive incursioni aeree, la borsa nera, le infamie e la fame, la distruzione di Santa Chiara, l’occupazione tedesca, l’arrivo degli alleati con facce e razze diverse che s’incrociavano nella Galleria Umberto I, dentro il cuore della città. Si diramarono da lì cento racconti, come quello del tenente francese innamorato di una libraia che sposerà dopo averla difesa a cazzotti dallo stupro dei ranger australiani mentre divampa l’eruzione del marzo ’44, l’ultima del vulcano. Emmanuel Roblès, corrispondente di guerra nato in Algeria, trasse il romanzo Vesuvio dai ricordi del suo soggiorno, mentre l’ufficiale americano John Horne Burns intitolò il suo libro proprio La Galleria, quel luogo “reso irregolare dal troppo vermut” dove s’intrecciavano le ombre dei soldati e delle donne desiderate; ed è in Galleria che molti anni dopo, nel dolce film di Ettore Scola Maccheroni, un manager americano di successo (Jack Lemmon) recupera la memoria della ragazza di cui s’era invaghito in guerra. Il tempo cambia tutto, ma tutti hanno diritto di temperarne la crudeltà con la poesia.


Frequentano la Galleria da una vita Edoardo Nicolardi e E. A. Mario, perché è lì che s’incrociano autori, attori, cantanti a caccia di scritture e impresari; è lì che Nicolardi e Mario sono omaggiati e corteggiati. Il primo annovera tra i successi la famosa Voce ’e notte dedicata al grande amore della vita, Anna detta Nina che è infine riuscito a sposare e gli ha dato otto figli; Mario invece ha scritto Santa Lucia luntana, Vipera, Balocchi e profumi ma soprattutto La leggenda del Piave, con cui nel 1921 avevano celebrato la traslazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria e che il nuovo governo italiano, in quel ’44, ha scelto come inno nazionale provvisorio. Tanto solenne e patriottico “il Piave mormorava” quanto insolente e popolare è la Tammurriata cofirmata dagli autori che diventeranno a breve consuoceri: Ottavio, l’ottavo figlio di Nicolardi, sposerà l’ultima figlia di E. A. Mario, Italia (il nome intero per la verità era Italia Terza Desiderata, perché arrivando dopo altre due femmine il papà tenne a sancire, all’anagrafe, che era contento lo stesso).

 


                           

La nascita della canzone è stata raccontata spesso anche con qualche imprecisione. Così ce la restituisce Guido Nicolardi, figlio di Ottavio e Italia, attingendo alle memorie di famiglia: “Mio nonno Edoardo era direttore amministrativo degli Ospedali Riuniti e aveva l’ufficio nei locali del Loreto Crispi in via Crispi. La sua casa a Salita Piedigrotta era vicina a quella di nonno Mario, in viale Elena, dove ho vissuto anch’io nei primi anni di vita. Un giorno, in ospedale, Edoardo seppe del parto di una ragazza di Portici da cui era nato un bimbo nero e fu anche testimone dello scalpore suscitato. Così, passando a salutare nonno Mario gli raccontò l’episodio che subito lo intenerì e gli diede lo spunto per una canzone”, dice Guido Nicolardi. “Mentre Mario invitava Edoardo a mettere i versi sulla carta, lui cercava la melodia col mandolino. Poi chiamò la figlia Bruna, un’eccellente pianista: ‘Vieni qui! Pigliame ’sta canzone!’. Man mano che scriveva, Edoardo leggeva le strofe e Mario ne ritoccava sulla melodia la metrica e gli accenti. Nacque così, di getto, Tammurriata nera. Presi dall’entusiasmo, s’affacciarono e cominciarono a cantarla”. Pochi giorni dopo aleggiava per le strade di Mergellina.


Il racconto di Guido combacia con la versione che rese Bruna in una biografia del padre, puntualizzando che l’ispirazione non derivava dal dileggio di quella nascita né aveva lo scopo di “riderci sopra ipocritamente”, ma scaturiva dalla “commozione provata da E. A. Mario per il coraggio con il quale quella giovanissima madre aveva difeso davanti a tutti la sua scabrosa maternità”. Luciano De Crescenzo, testimone dell’epoca, osservò che “in quel periodo erano molte le ragazze che si ritrovavano nella stessa situazione. Quando gli anglo-americani arrivarono in città non ebbero un granché da fare, o meglio, qualcosa da fare c’era, per esempio socializzare con la popolazione locale. Che vi devo dire, evidentemente questi americani erano dei bravi socializzatori”.


“Perciò i miei nonni”, prosegue Guido Nicolardi, “vollero rappresentare il dramma delle tante ragazze che si davano alle truppe straniere, però con tipica ironia napoletana, con un senso di profonda comprensione e senza provincialismi. Edoardo stesso aveva la mamma austriaca, due fratelli emigrati in America e la sorella Luigina sposò Ettore Giannini, il regista della commedia musicale Carosello napoletano, che prima di diventare un film fu applaudita nei teatri di mezzo mondo”.


Tammurriata nera è stata interpretata da dozzine di artisti che l’hanno riarrangiata, elaborata, rimaneggiata. Le diede voce per prima Vera Nandi nelle audizioni per la Piedigrotta del 1944, poi Roberto Murolo, Angela Luce, Massimo Ranieri, Renato Carosone, Gabriella Ferri, Noa (ma Guido ricorda anche Sting, che in un concerto di fine anni Ottanta a New York ne accennò il fraseggio arabeggiante). Fu eseguita nel film Ladri di biciclette da un gruppo di “posteggiatori”; fu riproposta in Passione di Turturro; è stata citata in un pezzo dal rapper Liberato. Caratteristica unica, però, è stata la sua “reincarnazione” nella versione della Nuova Compagnia di Canto Popolare incisa nel 1974, con l’enfasi sulla “tammorra” e la strumentazione popolare e con l’aggiunta di alcune strofe assemblate da Roberto De Simone, tanto che il musicologo Pasquale Scialò ha definito il brano “un’invenzione dalla doppia vita, con l’innesto di nuovi materiali, giustapposti alla stesura originale, che ne allargano l’orizzonte per creare una scena intertestuale che accoglie i gesti sonori e le voci della città nei giorni della guerra”.


Le strofe apposte in coda dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, che inserì la tammurriata nell’album Li sarracini adorano lu sole, non piacquero agli eredi di Nicolardi e Mario, fedeli alla stesura originale, ma sono la testimonianza di un’opera che ha continuato a mutare nel tempo come un organismo vivente, o come la memoria di ciascuno che è spesso resa apocrifa o dilatata dal passare degli anni. Quei versi in più (come “’e signurine ’e Capodichino fanno ammore cu’’e marrucchine”) furono in parte tolti a un singolare “cantastorie” ambulante, Eugenio Pragliola detto Eugenio cu’’e llente perché portava un paio di occhiali senza vetri e si esibiva con la fisarmonica sui tram e gli autobus provinciali; per altra parte vennero pescati in una canzone trascinata al successo da Bing Crosby, Pistol Packin’ Mama, che assurse ai vertici della hit parade americana nell’ottobre 1943, quando le truppe alleate entravano a Napoli e ve la diffondevano assieme alle Lucky Strike, alle Pall Mall e alle tavolette di cioccolata (ma “Lay that pistol down” diventava “E levate ’a pistuldà” e così via, in un’indecifrabile pseudolingua cui ogni ascoltatore finì e finisce per attribuire qualche astruso significato).


“Recuperammo Tammurriata nera sulla scia del nostro interesse per le tammurriate dell’entroterra campano e allo scopo di ricondurla a una dimensione popolare, come lo era la vicenda che aveva ispirato il brano”, dice Patrizio Trampetti, già componente della Nuova Compagnia, che ha riproposto centinaia di volte la canzone nei suoi concerti e la eseguirà il 28 novembre assieme ad Alfio Antico a Rosignano Marittimo, vicino a Livorno, dove è in programma un evento per festeggiare gli ottant’anni di Tammurriata e i cinquanta della versione di Roberto De Simone. “Quando incidemmo l’album”, prosegue Trampetti, “la Emi volle stampare anche un 45 giri con il pezzo che restò in classifica per diverse settimane, come non era mai accaduto per un gruppo di musica popolare. Arrivammo a tenere fino a duecento concerti l’anno in Italia e in Europa e abbiamo suonato Tammurriata nera a Berlino, Londra, Edimburgo. Chi non capiva il testo era immancabilmente trascinato dal ritmo e dalla melodia. L’ho anche sperimentata con improvvisazioni jazzistiche tra una strofa e l’altra e alla fine quadrava sempre tutto. E’ la rara peculiarità delle grandi canzoni: non stancano mai, persino dopo cento ascolti”. Trampetti rievoca le prove interminabili per i concerti della Nccp finché lui esasperato, un giorno, sbottò in quel “Seh!” dubitativo rivolto alla neo mamma della Tammurriata, però strillandolo un’ottava sopra quando il brano girava nel modo maggiore. Piacque. E da allora i più la eseguono così.


Anche dalla casa di De Simone dove le prove si svolgevano, quelle fiamme notturne sopra l’Italsider ancora si vedevano. Si vedeva l’enorme pilone di cemento di una funivia dismessa tra Fuorigrotta e Posillipo. Nessuno presentiva gli arrivi epocali dei migranti africani e gli sporadici neri che s’incontravano in città erano sempre militari americani della Nato. O li si immaginava tutt’al più venire dal Brasile e davvero ci venivano, come l’attaccante del Napoli Jarbas Faustinho Cané. Ai neri coloniali d’anteguerra, a qualche “faccetta” o “pupattola abissina, visin di cioccolata” chi si sognava di pensare più. Tutto dissolto nelle nebbie di un impero che fu, citato da sparuti reduci di battaglie più perse che vinte e ispiratrici di un cinema antieroico.


E’ trascorso più tempo dal ’74 a oggi di quanto non ne fosse passato dal ’44 a quella data, quando la guerra era patrimonio molto più comune nella memoria collettiva. C’era sempre un padre o un nonno, un cugino maggiore o una zia che nelle sere estive, come il Marlow conradiano, attaccava all’improvviso a raccontare minuziosi aneddoti bellici davanti al caffè, forse più per il bisogno di parlare che nella speranza di essere ascoltato. Ma fu così che molti bambini di allora acquisirono le prime nozioni circa un paese chiamato Germania. Fu per le rievocazioni di spaventosi fanti tedeschi, fu per una memoria che di certo non rese più facile la vita ad altri figli della guerra di cui nessuno narrava. Eppure c’erano, ci sono.


Sigfrido Höbel, insegnante in pensione e fecondo autore di saggi sui culti e i misteri partenopei, porta un nome che più tedesco non si può. Ma lui lo è solo a metà. L’amore veste e sveste tutte le uniformi e così accadde che Rosa Galante, figlia del noto pittore Francesco, appassionata di cultura mitteleuropea, conobbe a un concerto wagneriano un coetaneo della Wehrmacht. Fu nella fase del conflitto in cui ancora un immaginario soldato napoletano intonava le strofe di Camerata Richard e il Golfo ospitava i feriti dell’Afrika Korps. Convalescenti assai educati. Il sentimento tra Rosa e il graduato Heinz sbocciò immediato e non ci fu armistizio che potesse insidiarlo. “Successe dopo l’8 settembre del ’43”, racconta Höbel. “Mia madre era sfollata con la famiglia in Piemonte, ad Arona sul Lago Maggiore, per sfuggire ai continui bombardamenti. Heinz chiese alcuni giorni di licenza, si procurò un’automobile e da Napoli arrivò fin lì in un viaggio che dovette essere avventuroso, o folle, o molto romantico”. Ottennero di sposarsi subito, senza pubblicazioni, nemmeno perché Rosa fosse incinta. Puro impeto amoroso. Sigfrido fu concepito poco dopo a Francoforte, dove risiedeva la famiglia di Heinz, “ma anche quella città era bersagliata dai bombardamenti, perciò mamma decise di tornare ad Arona dove sarei nato. Papà intanto aveva ripreso servizio sul fronte francese”. Lo assegnarono a un reparto lanciafiamme finché non ne potette più e si lasciò fare prigioniero dai nemici. Rosa cercò di raggiungerlo ma fu bloccata alla frontiera e rimandata indietro. “Ad Arona, per paura dei partigiani, i miei parenti sparsero la voce che ero figlio di un altoatesino”, ricorda Sigfrido, che risultando all’anagrafe di nazionalità germanica dovette rinnovare anno per anno il permesso di soggiorno in Italia, finché diciottenne non acquisì la cittadinanza ma volle conservare sempre anche quella tedesca.


Taciutisi i cannoni, il matrimonio tra Heinz e Rosa non resse. In Germania già vigeva il divorzio e lui potette presto risposarsi, però tornava a Napoli per rivedere il bambino. Ne tenne a lungo nascosta l’esistenza ai quattro figli che aveva avuto nelle seconde nozze, poi un giorno, che Sigfrido era ormai quattordicenne, se lo portò a conoscere tutta la famiglia, nonni, cugini, zii. Da allora lui trascorse un mese all’anno in Germania. “Conservo ancora una foto molto bella di mio padre e mia madre nelle giornate napoletane. Mamma, anche dopo la fine del matrimonio, conservò l’amore per la cultura tedesca. Continuava a frequentare i concerti wagneriani. E ci portava anche me”.


Esigui se rapportati alla lunghezza media di una biografia, quegli anni tra parentesi (1940-45) spesso determinarono tutti gli altri che sarebbero restati. La ragione s’era rivelata più debole del destino e il destino la smascherava in ognuno dei suoi bluff. Per esempio qualsiasi logica spingeva a sfollare da Napoli bombardata verso una quieta campagna, purché il fato non la smentisse. Enrico De Leva, il musicista della digiacomiana Spingule francese, si rifugiò in un paesello sperduto, però proprio da lì passarono i tedeschi in ritirata e catturarono senza motivo il suo unico figlio Rosario, brillante pianista sedicenne. Riuscì a scappare con altri tre giovani nelle campagne del Beneventano e si nascosero in una chiesa, ma i tedeschi la violarono e mitragliarono tutti e quattro. Anche E. A. Mario si spostò in campagna con i famigliari, ma la moglie Adele fu costretta a subire un intervento chirurgico. Poiché le bombe cadevano anche sugli ospedali, risolsero di farla operare in casa: sarebbe andato tutto liscio se il dottore non avesse dimenticato un paio di forbici e un metro di garza nella pancia. Cominciò per Adele un calvario che non si concluse, dopo la guerra, neppure con un’altra operazione.


Napoli intanto s’affacciava agli anni Sessanta. I nati con Tammurriata nera s’erano fatti adolescenti, Nicolardi era morto nel ’54, l’inno d’Italia era quello di Mameli e chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Viale Elena adesso si chiamava viale Gramsci però la casa di E. A. Mario stava sempre lì. Solo lui non era più lui. Malato da tempo, parlava ogni giorno un po’ meno. Quando Adele morì prostrata per quei fatali errori medici, il creatore della Leggenda del Piave e di oltre duemila brani, probabilmente il più prolifico autore nella storia della canzone, l’autodidatta geniale che tutto cominciò trovando un mandolino nella bottega del padre barbiere, decise di fare come l’ultimo Ezra Pound. Non volle più parlare. Forse non sapeva cosa dire o preferiva non dirlo. Le figlie gli approntarono un tabellone con le lettere dell’alfabeto e comunicò solo così, sfiorandole con l’indice una per una.


Morì nel 1961, in un giorno speciale per lui: il 24 giugno si ricordava la seconda battaglia del Piave ed era la festa di san Giovanni, suo onomastico, anche se non aveva mai amato quel nome anagrafico pretendendo che tutti, parenti, amici e ammiratori lo chiamassero Mario. Lo pseudonimo che s’era scelto. In quelle ore dal Teatro Mediterraneo di Fuorigrotta la tv trasmetteva in diretta il “Giugno Canoro”. Pippo Baudo per dare la notizia interruppe il programma.
La targa marmorea, apposta quattro anni dopo sul palazzo al numero 30 di viale Gramsci, lo ricorda “emulo di Mameli e Mercantini” che “scrisse e musicò canti di incomparabile bellezza”. Tra questi Tammurriata nera ce lo dobbiamo mettere.