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Critica

Davanti a una cultura esausta e ripetitiva restano il broncio o la satira

Alfonso Berardinelli

Lamentarsi dello stato culturale della società è diventata negli ultimi anni una sorta di specialità della critica nazionale e internazionale, in cui lo stile satirico permette di ridere e ridicolizzare la sterilità e la ripetitività dell'occidente, senza essere "imbronciati”

Devo anzitutto scusarmi perché tenterò di dire qualcosa a proposito di un’intera epoca. Ma quando ci si occupa di fenomeni culturali anche in apparenza limitati e specifici, per esempio di attuale produzione e consumo di cultura, può succedere che ogni tanto si sia spinti a parlare dello stato generale della cultura, fino a tentare di ridefinirla storicamente. In compenso però sono bene ispirato da quanto ho letto in un articolo di Francesco Stocchi uscito su questo giornale il 27 settembre scorso intitolato “Beata l’arte che non rinuncia al futuro” e sottotitolato “Poca innovazione, gusti e stili omologati: la crisi di oggi”. Si parte pensando all’arte, ma poi si passa giustamente alla cultura nel suo insieme, dato che ogni settore e ogni livello culturale ne coinvolge altri, per osmosi o per opposizione.


Scrive Stocchi: “In una quotidianità pervasa da istanze digitali, che investono l’economia, l’educazione, la socialità, i trasporti, la sanità, insomma ogni aspetto della nostra vita, che cosa ne è della dimensione culturale? Che tipo di impatto ha avuto il digitale nella musica, nel cinema, nelle arti visive e performative, nella fotografia? Sicuramente una facilità di accesso diffusa (…) ma è possibile rintracciare nell’avvento del digitale una conseguenza comune che abbia inciso sulle varie discipline culturali? Sicuramente assistiamo a un’uniformazione del gusto (quindi nella ricezione) e di conseguenza negli stili (quindi nell’offerta) che tende a omogeneizzare il tutto”.


Il problema e l’oggetto non può quindi essere che “il tutto” e questo spiega anche il fatto che la critica culturale è attualmente poco o nulla praticata. In un mondo di specialisti e di specializzazioni un po’ istituzionali e un po’ maniacali, osare pronunciarsi su una varietà interconnessa di fenomeni e prodotti culturali è sempre più raro. Trovandomi fuori dalle istituzioni, per esempio a me succede da parecchi anni di rischiare la tuttologia e il dilettantismo come mania caratteriale. Di fronte a libri, spettacoli, linguaggi e modalità comunicative che non mi piacciono, faccio fatica a non criticare. Poiché l’attuale letteratura troppo spesso mi delude o non mi interessa, sono costretto ad abbandonare la critica letteraria (mia vecchia, invecchiata competenza) a favore di una critica culturale e sociale.
A questo punto lascio di nuovo la parola a Stocchi che così avverte e deplora: “Lamentarsi dello stato della cultura in questa modalità di attenzione imbronciata è diventata negli ultimi anni una sorta di specialità della critica nazionale e internazionale. Il critico professionista (cioè quello che critica sempre e solamente) assume la postura fatta da una curiosa miscela di derisione e assuefazione, indifferenza e impegno, nausea e ingorgo, di fronte al banchetto della cultura contemporanea”.


Trovo perfetto o quasi questo ritratto del critico che critica. C’è solo da chiedersi se il suo stile “imbronciato” sia dovuto a lui in quanto individuo che critica o alla cosa criticata. Più precisamente, per spirito di equilibrio e per quanto mi riguarda, direi che la mia originaria propensione per l’attività critica mi ha portato fin dagli anni Settanta molto spesso allo stile satirico. E’ perché così si evita meglio di essere “imbronciati” con la cattiva cultura e la si trova invece risibile, ridicola.


Torno alle mie elucubrazioni improvvisate. Ricordo di avere pensato e scritto, proprio all’inizio degli anni Ottanta, che il Novecento si era concluso con il decennio precedente, cioè con la degradazione e autoconsunzione del Sessantotto. Nominando quell’anno si indicava e si indica un periodo di circa due decenni, dal 1960 al 1980, da libri e riviste che avevano preparato le rivolte sociali e politiche delle nuove generazioni esplose in quell’anno, per arrivare poi agli anni del terrorismo e alla fine di ogni idea di “avanguardia” sia artistica che sociale e politica. Si pensava, si ipotizzava di cambiare la vita individuale e collettiva mettendo insieme scelte diciamo esistenziali e piccoli o grandi partiti di militanti politici. Per dare un’idea delle paradossali confusioni di gruppi ormai post-Sessantotto usai il termine ibrido e volutamente comico di “anarcostalinismo”. L’idea di rivoluzione conteneva quella di un mutamento del modo di vivere che anticipasse, per mezzo di “utopie concrete” e comunitarie (se ne parlava in Germania), un’utopia futura estesa a tutti gli aspetti della società: lavoro, famiglia, creatività, conoscenza, sesso, educazione. Quando si vide che il programma era così complesso da risultare scoraggiante, a una maggioranza di delusi, di individualisti o di nuovi scalatori sociali, si oppose per qualche anno una minoranza di cospiratori che per compensare la frustrazione e l’impotenza politica scelsero la violenza e l’omicidio esemplare. In effetti il Novecento era finito, come ovviamente era finito anche l’Ottocento politico e culturale che lo aveva preparato. Baudelaire e Dostoevskij avevano previsto tutto o quasi.


E oggi? Sembra che l’occidente sia culturalmente esausto, sterile e ripetitivo. E’ vero: il primo ventennio del Duemila non ha prodotto niente di nuovo, neppure nelle mode. Le cosiddette provocazioni non sorprendono più nessuno, quando arrivano erano già state previste. Del resto, già a metà Novecento le avanguardie erano entrate nelle università come doverosa materia di studio. La cultura francese, in questo, è sempre stata maestra: la sua regola è formulare regole per infrangerle. Diligentemente si disubbidisce. Ma disubbidendo non si scopre niente di nuovo.


Trovo ancora buona una diagnosi del post Postmoderno da allora in poi che mi venne in mente alla fine degli anni Ottanta: “Una non società senza individui”. Il migliore contributo della postmodernità è stata piuttosto la sensazione, se non la certezza, che, esaurita la modernità, si dovesse guardare qua e là a tutta la precedente cultura umana. Ritrovare il senso del limite, usare saggezza e prudenza, conoscere e controllare sé stessi, evitare il troppo e gli eccessi, e infine sapere che la società non sarà mai migliore se non ci saranno individui migliori.
 

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