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Tra guerre e mercati

Solo chi è pervaso dall'ideologia può legare il liberalismo al bellicismo

Carlo Marsonet

Due opere cercano di smontare i pregiudizi che gravitano attorno all'idea del mercato, visto quale istituzione favorevole alla guerra e non una semplice istituzione, senza dare adeguata importanza a quanto invece abbia contribuito nel corso della storia a rendere il commercio di armi molto più costoso

Quando si parla di liberalismo, le opinioni diventano pregiudizi. Una teoria che legittima le diseguaglianze – come se l’eguaglianza fosse la condizione naturale degli esseri umani e il comunismo il sol dell’avvenire; una dottrina che porta alla miseria generalizzata – pregiudizio sfatato dalle statistiche (e dal buon senso); una corrente di pensiero essenzialmente bellicosa – sollecita gli animal spirits: questi sono, a titolo esemplificativo, alcuni dei più comuni (pre)giudizi anti liberali. Un libretto di un grande studioso come Dario Antiseri, Principi liberali (Rubbettino), costituisce una piccola (nelle dimensioni) grande (nei contenuti) introduzione a cosa davvero il liberalismo sia: una dottrina pacifica. Sembra banale, ma così in realtà non è. La libertà può prosperare solo laddove vi è la pace, e il mercato, insieme al diritto e alla democrazia (liberale), è quell’istituzione che consente di raffreddare le passioni violente rendendo gli attori interdipendenti


Antiseri sfata assai bene alcuni miti che da sempre assediano la teoria liberale. Su tutti, il fatto che il mercato sarebbe un’istituzione favorevole alla guerra: tramite esso, infatti, vengono ad esempio commerciate le armi. Al che Antiseri risponde: il mercato non è un’ipostasi vivente, ma quel che le persone ne fanno. Di conseguenza, non è colpa del mercato se vengono trafficate armi, ma piuttosto degli agenti in carne e ossa che se ne servono per i loro deprecabili fini. È dunque una morale guasta di certi uomini a esserne responsabile, non certo il mercato che non può nemmeno difendersi da tale accusa: non ha una voce, è una semplice istituzione! Quando qualcosa non piace, si sa, la scorciatoia consiste nell’addossare la colpa agli altri – meglio ancora se si tratta di stenogrammi impersonali – piuttosto che guardarsi dentro e provare ad autoriformarsi.


La connessione tra liberalismo e pacifismo è ora indagata in un’antologia curata da Nicola Iannello e Alberto Mingardi, Pace e mercato. Le relazioni internazionali nella tradizione liberale (Studium). Il volume comprende alcuni passi scelti di diversi autori, tra i quali Montesquieu e Adam Smith, Benjamin Constant e Vilfredo Pareto, Richard Cobden e Gustave de Molinari, Frédéric Passy e Norman Angell. A unire tutti questi, e gli altri inclusi, pur nella loro diversità, è il fatto che la libertà può prosperare solo dove esistano istituzioni pacifiche. Ed è il commercio a rendere meno improbabile, anche se non impossibile, il ricorso alla violenza da parte di qualcuno. Al che si potrebbe obiettare che ci sarà sempre qualcuno che si farà prendere la mano dall’atavico e probabilmente ineliminabile “impulso selvaggio” della guerra (Constant). Certamente. E tuttavia è proprio lo scambio attraverso il mercato a rendere questa bellicosità maggiormente costosa: l’interdipendenza crea legami difficili da eliminare, pena oneri molto alti per chi decide di farne a meno. Vi sono poi ulteriori ragioni a sostegno della pace, della libertà e della cooperazione sociale. In un brano riportato dell’economista e scienziato sociale austriaco Ludwig von Mises si saggia con mano come dalla guerra nulla di buono possa emergere: essa è distruttivismo allo stato puro, anche per chi gli ipotetici vincitori. Il risultato è dunque la miseria umana, morale e materiale. Dalla pace, invece, scaturiscono possibilità di miglioramento per tutti, godimento dei beni, degli affetti e della propria libertà. Ritenere liberalismo e bellicismo legati è pura ideologia: pacifisti perché liberali, liberali perché pacifisti. I totalitarismi novecenteschi dovrebbero servire da ammonimento.