Dettaglio del manifesto del film “Vidocq” del 1922, di Jean Kemm, con René Navarre 

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Eugène-François Vidocq, da criminale a criminologo

Massimiano Bucchi

Un passato da scavezzacollo e una carriera da investigatore. Ispirò Balzac, Poe e le attuali tecniche di indagine

Parigi, 1822. La scena del delitto non lasciava dubbi né agli investigatori, né all’opinione pubblica francese. La giovane Contessa Isabelle d’Arcy giaceva morta, uccisa con un colpo di pistola. Molto più giovane del marito, la donna frequentava da tempo un altro uomo. Il Conte d’Arcy fu subito arrestato come responsabile del delitto. Solo un detective non era convinto della colpevolezza del Conte. Interrogando il marito, infatti, non vi aveva ravvisato i tratti di qualcuno in grado di uccidere, tantomeno la moglie. Controllò le sue pistole da duello e non vi trovò tracce di spari recenti. In segreto, riuscì a ottenere da un medico l’estrazione della pallottola dal cranio della nobildonna. La confrontò con le pistole del marito: le dimensioni non coincidevano. Ordinò allora un’ispezione della casa dell’amante, dove trovò una pistola compatibile con la pallottola e numerosi monili sottratti alla Contessa. Il detective era Eugène-François Vidocq, all’epoca quarantasettenne e a capo della Sûreté Nationale, già Brigade de Sûreté, e la risoluzione di questo e altri casi con pionieristiche tecniche di scienza forense, unitamente al suo passato di criminale e scavezzacollo, contribuì a farne una figura leggendaria capace di ispirare scrittori come Honoré de Balzac, Victor Hugo ed Edgar Allan Poe.

 

Vidocq nasce nel 1775 ad Arras da un’onesta famiglia di panettieri. Appena quattordicenne, vende di nascosto l’argenteria di famiglia con l’intenzione di imbarcarsi per l’America. Ma spende tutto il denaro in pochi giorni in gozzoviglie e il progetto fallisce, sicché si aggrega a un circo, dapprima come stalliere, poi come improbabile attrazione (“cannibale caraibico”). Poco intenzionato a mangiarsi un pollo ancora vivo come il padrone del circo gli ordina, il giovane Eugène-François inizia a praticare quella che sarà a lungo una sua specialità: l’arte della fuga. Prova a seguire un’altra compagnia itinerante di spettacoli di burattini, ma il burattinaio lo sorprende in intimità con la propria moglie e lo caccia via. Torna allora brevemente a casa dai genitori, ma in assenza di alternative si arruola nell’esercito. Dura poco, ma Eugène-François fa in tempo a rivelarsi un formidabile schermidore, e soprattutto un instancabile attaccabrighe, nonché donnaiolo impenitente. A neanche vent’anni si è già sposato con una ragazza incinta, ma quando scopre che il figlio non è suo, sparisce. Di lì in poi, è un continuo andirivieni dalle prigioni francesi per vari reati. Dal durissimo penitenziario di Brest scappa ben tre volte: una volta vestito da marinaio, una da lattaio e infine da suora. Lo riacciuffano tutte le volte, ma lui scappa ancora.

 

Nei suoi ricordi autobiografici, da prendere con le dovute cautele, si vanterà di essere evaso da tutte le carceri di Francia. La svolta avviene nel 1809, e apre il periodo in retrospettiva più interessante della vita di questo avventuriero. Forse colpito dalla condanna a morte di un compagno di scorribande, forse semplicemente stufo di quella vita, quando lo arrestano per l’ennesima volta si offre a sorpresa come informatore della polizia. Si decide di metterlo alla prova, ma a liberarlo non si pensa nemmeno. Per quasi due anni è messo in un regime carcerario meno severo: ascolta le conversazioni tra i compagni di detenzione, e poi le riferisce puntualmente ai poliziotti. Che nel 1811 sono pronti a rilasciarlo, a condizione che continui nel suo ruolo di informatore. Ma liberarlo significherebbe minare la sua reputazione con gli stessi malviventi che gli si chiede di spiare: si mette quindi in scena un’evasione fasulla. 

   

Lo scaltro Vidocq mette su nel giro di poco tempo una piccola unità di agenti in borghese, quasi tutti con trascorsi nella malavita, che si rivela straordinariamente efficace nell’infiltrarsi tra i delinquenti per sgominarli. La Brigade de Sûreté si chiama, e nel 1813 diventa, con decreto imperiale, un corpo ufficiale (Sûreté nationale). Vidocq la dirige per due decenni, portandola da quattro a ventotto agenti e insistendo a impiegare per la prima volta anche agenti femminili, sempre sotto copertura. In quegli anni mette a frutto la sua straordinaria capacità mimetica, appresa negli anni del crimine e delle evasioni, e forse perfino nella breve esperienza circense. Riesce infatti a travestirsi per sembrare molto più basso o più alto, si finge mendicante e moribondo, sa imitare alla perfezione accenti locali e gerghi della malavita e lo stesso insegna a fare ai suoi collaboratori.

     

Definirlo il fondatore della scienza forense, come egli stesso vanta nelle proprie memorie, è senz’altro eccessivo, ma non c’è dubbio che sia stato tra i primi a usare in modo sistematico metodi poi divenuti parte integrante delle tecniche di investigazione. Il primo, che oggi pare scontato, è la creazione di un ampio e dettagliato database. Partendo dalla propria capacità prodigiosa di memorizzare volti e corporature, Vidocq sviluppa un sistema di schede indicizzate, e grazie ai suoi agenti infiltrati nelle gang e nelle carceri, registra i dati di oltre trentamila criminali sulla base dell’aspetto fisico, delle false identità utilizzate, delle modalità con cui compiono i reati e vi abbina perfino un campione della loro grafia. Questo ricco database gli permette di individuare rapidamente e con precisione potenziali sospetti di un crimine e spesso anche di intervenire in modo preventivo. Nel 1831, osservando una porta che è stata aperta per commettere un furto alla Biblioteca nazionale, conclude con sicurezza che un lavoro così pulito può averlo fatto solo un certo Fossard, che però risulta in carcere. In realtà Vidocq ha fatto centro anche stavolta: Fossard, per l’appunto, è evaso otto giorni prima.

     

Presta grande attenzione a ogni dettaglio sulla scena del crimine e comprende con largo anticipo, seppur applicandolo con metodi rudimentali, il potenziale dell’analisi delle impronte di passi e di quelle digitali. Applica artigianalmente la balistica, come nel caso dell’omicidio della Contessa D’Arcy citato in apertura, un episodio che ci è giunto tramite il racconto di Alexandre Dumas. Quest’ultimo non è l’unico scrittore a subire il fascino di Vidocq: tratti della sua figura sono rintracciabili, tra l’altro, nell’opera di Balzac (il personaggio di Vautrin, che appare per la prima volta in Papà Goriot, 1835); ne I miserabili di Victor Hugo (il personaggio dell’ispettore Javert, 1862) e nel detective Auguste Dupin introdotto da Edgar Allan Poe ne I delitti della via Morgue (1841). Continuerà fino ai giorni nostri a ispirare romanzi, serie illustrate e opere cinematografiche: il primo film, muto e in bianco e nero, è addirittura del 1909 (La jeunesse de Vidocq ou Comment on devient policier); un altro, del 1923, Vidocq diretto da Jean Kemm; uno dei più recenti quello di François Richet, L’Empereur de Paris (2018), con Vincent Cassel.

   

Anche studiosi come Michel Foucault non restano indifferenti all’impatto storico e politico della figura di Vidocq, seppur attribuendole una valenza negativa. “Vidocq segna il momento in cui la delinquenza viene investita dal potere e rovesciata”, scrive Foucault in Sorvegliare e punire (1975). “E’ allora che si opera l’accoppiamento diretto e istituzionale della polizia e della delinquenza. Momento inquietante in cui la criminalità diviene uno degli ingranaggi del potere. Una figura aveva ossessionato le età precedenti, quella del re mostruoso, fonte di ogni giustizia e tuttavia insozzato dai crimini; un’altra paura appariva, quella di un’intesa nascosta e torbida tra coloro che fanno valere la legge e coloro che la violano. Finita l’età shakespeariana in cui l’abominio si affrontava nello stesso personaggio, comincerà presto il melodramma quotidiano della potenza poliziesca e della complicità che il crimine annoda col potere”.

   

Abbandonata non senza polemiche la guida della Sûreté, grazie a cui ha raggiunto finalmente anche una certa tranquillità finanziaria, l’inesauribile Vidocq si reinventa come scrittore e pubblica le sue memorie in quattro volumi tra il 1828 e il 1829: il successo è enorme e i testi sono subito tradotti anche in inglese, anticipando per molti versi le detective stories. L’autore inizia a frequentare regolarmente i più grandi scrittori francesi dell’epoca, con cui spesso si intrattiene a pranzo e a cena. Investe somme cospicue in un’attività imprenditoriale completamente diversa: una fabbrica di carta. Forte della sua esperienza di lavoro con gli ex delinquenti, Vidocq decide di impiegare prevalentemente lavoratori usciti dal carcere. Ma le cose non vanno bene e l’attività finisce in bancarotta. Di quegli anni sono tuttavia due invenzioni, realizzate coinvolgendo due chimici, che si aggiungono alla sua pionieristica visione “scientifica” del crimine e della sua prevenzione: una carta speciale a prova di contraffazione, e un inchiostro indelebile che sarà usato in seguito dallo Stato francese per stampare le banconote.

   

Nel frattempo, e poiché a Parigi il crimine è ormai fuori controllo, viene richiamato alla Sûreté. Dura poco, ma è in questo periodo che Robert Peel, fondatore della neonata Scotland Yard, manda un suo delegato a studiare i metodi originali di Vidocq, che saranno di grande ispirazione per creare il primo corpo di agenti londinesi sotto copertura. Quasi sessantenne, Vidocq decide di continuare a fare ciò che sa fare meglio, ma in proprio, mettendo a frutto i metodi introdotti con successo nelle indagini contro il crimine. Crea così il Bureau de Renseignements, una delle prime agenzie investigative private. Il modello di business è estremamente moderno: pagando una sorta di abbonamento, le aziende accedono alla banca dati di Vidocq e ottengono così informazioni riservate su collaboratori e clienti. Su richiesta gli agenti del Bureau approfondiscono i casi con tecniche di spionaggio industriale, senza disdegnare anche indagini su questioni private o famigliari. Gli affari per un po’ vanno bene, e il Bureau arriva a contare addirittura una quarantina di agenti. Ma i metodi spicci e non sempre legali con cui gli uomini di Vidocq operano non mancano di creare conflitti con la polizia e cause legali, e Vidocq finisce un’ultima volta, seppur brevemente, in prigione.

   

Quando muore a ottantadue anni, l’11 maggio 1857, l’apertura del testamento è una scena degna di Truffaut (“L’uomo che amava le donne”): ben undici signore si presentano a reclamare la propria parte di eredità sulla base di promesse fatte in vita dal defunto. Restano piuttosto deluse: di tutto il denaro guadagnato in anni di indagini e libri rimangono ormai meno di tremila franchi, oltre a una pensione che non arriva a novecento franchi. Si fa avanti anche un figlio presunto, che reclama la propria parte. Ma il defunto ha lasciato previdentemente una nota documentale che esclude anche questa paternità: nel periodo del concepimento si trovava, tanto per cambiare, in prigione.

 

Ben più ricca come si è visto l’eredità che Vidocq lascia nell’immaginario, con la sua vita piena di avventure e giravolte rocambolesche in cui passò “da truffatore a detective, da bracconiere a guardiacaccia, da criminale a criminologo”.

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