una catastrofe
Il “Rheingold” in stile fantasy è la perfetta sintesi di ciò che è diventato il teatro alla Scala
Tutto sembra pensato per lo spettatore-tipo del teatro milanese di questi anni, il turista solvente che arriva overdressed per farsi i selfie. E mica vorremo andare a uno spettacolo per pensare?
Il “Rheingold” che lunedì ha aperto il nuovo “Ring des Nibelungen” della Scala è una perfetta sintesi di quel che è stato il teatrone negli ultimi anni. A metterlo in scena è stato chiamato sir David McVicar, regista di gran mestiere anglosassone che di spettacoli belli ne ha fatti molti prima di diventare una colonna del Met e zeffirellizzarsi, e sul podio doveva arrivare Christian Thielemann, wagneriano a ventiquattro carati, uno che il “Ring” l’ha già diretto ovunque, manca solo il salotto di casa mia. Insomma, già il progetto iniziale era poco interessante: niente rischi, usato sicuro, novità zero, idee idem, riflessioni su cosa, possa e magari debba essere Wagner nel XXI secolo, ovviamente, nessuna. Poi Thielemann si è sfilato protestando le solite ragioni di salute e, testuale, “per il contesto di incertezza sul futuro” della governance, come ha scritto la Scala diventando così il primo teatro della storia a diffondere un comunicato contro sé stesso (e poi, per inciso: quale incertezza? Dominique Meyer non è stato rinnovato e dal primo marzo arriverà dalla Fenice Fortunato Ortombina, che peraltro è già a Milano al lavoro).
Thielemann è stato rimpiazzato per l’“Oro” e per il resto dell’“Anello” da un duo composto dall’esperta Simone Young e dal giovane Alexander Soddy, anche qui con la consueta mancanza di coraggio: se si pensa che Soddy valga, perché non dargli tutto il “Ring”? Sta di fatto che la prima è stata diretta dalla Young, senza entusiasmare: qualche bel momento nei passaggi, e sono più numerosi di quel che si creda, in cui Wagner fa della musica da camera, ma in generale una direzione di routine, e con un finale singolarmente deludente. La compagnia è invece abbastanza buona, specie Ólafur Sigurdarson come Alberich più chiaro del solito ma sicurissimo, mentre Michael Volle, Wotan, è sempre un grande artista ma ormai sembra stanco, quindi c’è da preoccuparsi per ”Walküre”. E’ tornato anche il micidiale Ain Anger, cui evidentemente Meyer è affezionato, che dopo aver devastato in questa stagione “Don Carlo” e “Simone” ha cantato Fafner (molto meglio Fasolt, Jongming Park), quindi c’è da preoccuparsi anche per “Siegfried”. Buono Loge, Norbert Ernst, eccezionale Mime, il solito Wolfgang Ablinger-Sperrhacke.
Ma il vero problema è lo spettacolo di McVicar. Ovviamente, si rinuncia in partenza a qualsiasi interpretazione, a spiegarci se dietro dèi e giganti Wagner non stia per caso parlando di qualcos’altro, e cosa questo qualcosa sia oggi. No: siamo al puro fantasy; intellettualmente, un Wagner pre Chéreau o addirittura ante Neue Bayreuth. Perfino la produzione programmaticamente reazionaria di Tankred Dorst sulla Collina all’inizio di questo secolo, diretta, ovvio, da Thielemann, era più stilizzata. Il problema però è che si può anche considerare Wagner un ur-Game of Thrones, ma bisognerebbe farlo meglio. Coraggio, allora ripristiniamo le corna e le pelli, mentre qui gli dèi, per ragioni imprecisate, indossano dei guardinfante da meninas di Velázquez che rendono perfino difficile deambulare (però hanno le maschere quando sono divinità e se le tolgono quando si comportano da uomini, attenzione, metafora!).
Ma poi, se fantasy dev’essere, vogliamo gli effetti speciali veri, alla Livermore, mentre tutta la parte del Tarnhelm è poco speciale e pochissimo d’effetto. L’oro è impersonificato da un tizio che balla, boh: e vabbè che nell’ultimo “Don Carlos” di New York McVicar faceva precedere gli eretici che salivano al rogo da un mimo che faceva le capriole, giuro che è vero. Insomma, tutto sembra pensato per lo spettatore-tipo della Scala di questi anni, il turista solvente che arriva overdressed per farsi i selfie (a proposito: la stronza che ha scattato una foto con il flash a sipario aperto dal palco sopra di me sappia che la mia maledizione la inseguirà ovunque, altro che Alberico), e mica vorremo andare a teatro per pensare? Quel poco pubblico vero che rimane ha dedicato un po’ di buuu! a Young e, più robusti, a McVicar.
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