Non solo Monica
In “Inganno”, Monica Guerritore si lega a un uomo molto più giovane di lei
La miniserie televisiva italiana creata da Pappi Corsicato racconta la storia di Gabriella, una donna di sessant'anni che si innamora di un ragazzo di nome Elia. Tutti i precedenti letterari, da Fedra a Marguerite Duras
Lo sai quanti anni ho? Potrei essere tua madre…”. “Sì, ma non lo sei”. Sono le battute, non appena strappato il primo bacio, tra Gabriella, ricca signora sessantenne con albergo in costiera amalfitana, ed Elia, bel ragazzo dal fisico statuario e misterioso passato. E’ la coppia di Inganno, ultimo thriller sentimentale di Netflix, che ripropone il topos scandaloso della donna “vecchia”, come la chiamano impietosi i figli, e del giovane maschio per definizione approfittatore. Ma qui non ci sono le figurine liftate del cinema americano, non ci sono toy-boy e Demi Moore è lontana mille miglia, perché a dominare la scena con le sue rughe e il suo corpo svelato è un’attrice come Monica Guerritore, che non ha voluto né filtri né infingimenti, nemmeno nei primi piani. Cringe, imbarazzante, qualcuno ha definito la serie, visto che l’asticella si è alzata: i sessant’anni sono diventati i quarant’anni di prima. Ma l’idea del regista Pappi Corsicato (e delle sue tre sceneggiatrici) è proprio quella di giocare sulla forza sacrilega dei loro corpi in amore, riportandoci alle radici mitiche di uno dei rapporti tra uomo e donna più perturbanti.
Fin dal mito, infatti, grava su questa coppia proibita il fantasma dell’incesto. Senza scomodare Edipo e Giocasta, perché lì è il fato a farli incontrare e loro non sanno chi sono, è sufficiente la figura di Fedra, matrigna crudele, persa d’amore per il giovane Ippolito, figlio del marito Teseo. Nella versione di Euripide e poi di Seneca, le regole patriarcali sono scritte: quell’amore è impossibile, e Fedra, respinta dal giovane che ama una della sua età, lo calunnia accusandolo di stupro e provocandone la morte, e poi inevitabilmente si uccide. E’ lei la colpevole. Secoli dopo, il giansenista Jean Racine ha fatto di Phèdre il suo capolavoro, sviluppando nei suoi versi seicenteschi quel linguaggio dell’amore interdetto, che non dovrebbe nemmeno essere pronunciato e che invece porta alla catarsi e alla catastrofe liberatoria della parola. “Lo scompiglio entrò nell’anima perduta, sentii il mio corpo ardere e gelare (…) Riconobbi Venere e i suoi fuochi. Invano bruciavo l’incenso sugli altari. Illusori rimedi a un amore incurabile! Io guardo alla mia colpa con un giusto terrore; ho in odio la mia vita, la mia fiamma in orrore”. Ma Racine ne cambia la trama, non è più Fedra colpevole dell’accusa a Ippolito, ma la serva Enone. “Ho avuto cura di renderla un po’ meno odiosa di quanto non fosse nelle tragedie degli antichi”, scrisse nella prefazione al suo poema.
Una Fedra perdonata apre alla modernità, e la trasgressione amorosa generazionale la troviamo abituale nel romanzo ottocentesco, come ne Il rosso e il nero di Stendhal o L’educazione sentimentale di Flaubert, dove entrambi i protagonisti maschili aderiscono allo stereotipo che vede nella relazione con una donna che conta un passaggio quasi obbligato nella scalata sociale. Bisogna arrivare al Novecento e alla scandalosa Colette perché il legame amoroso tra una donna matura e un giovane uomo sia davvero al centro della narrazione, e dalla parte di lei. Gabrielle Sidonie Colette, nata nel 1873 e morta nel 1954, prima donna a entrare all’Accademia Goncourt e che ha avuto l’onore di un funerale di stato, ha fatto della sua vita un’opera d’arte, anticipando la formula contemporanea dell’autofiction, canone letterario prettamente femminile. Colette rovescia lo stereotipo del rapporto tra una giovane donna e il suo più o meno anziano pigmalione, modello Anais Nin e Henry Miller, per intenderci, e mille altri. Lei lo aveva provato sulla sua pelle: andata sposa giovanissima a Willy, si era vista derubata dei suoi fortunatissimi romanzi – il ciclo di Claudine – pubblicati appunto con la firma del marito. Ma per lei era stata la preistoria: la sua è stata una vita di rotture delle ipocrisie e di conquiste continue, diventando un’icona dell’immaginario libertario femminile.
Recentemente la scrittrice e psicoanalista Julia Kristeva le ha dedicato un saggio di quattrocento pagine, Colette. Il genio femminile, edito da Donzelli, in una trilogia che comprende oltre a lei Hannah Arendt e Melanie Klein. “Colette ha inventato il linguaggio per definire la strana osmosi tra i piaceri che alla leggera chiamiamo fisici e l’infinito del mondo”, scrive Kristeva. “Dice l’indicibile e nomina l’innominabile”. Tagliata la lunghissima treccia, Gabrielle diventa Colette: caschetto, smoking, esotismo, teatro e music-hall, mondanità e promiscuità. Colette è bisessuale, lesbica, amante a tre, pratica il poliamore. Tutto diventa scrittura di sofisticato erotismo, il suo è un cantico del piacere femminile. “La scrittura stessa sembra così una sostituzione del piacere erotico, e il testo un feticcio”, scrive Kristeva. “La scrittura è un transfert del piacere della sessualità a tutte le sensazioni e, simultaneamente, in tutte le parole”. Colette è al secondo matrimonio quando incontra il giornalista August Heriot, tredici anni meno di lei, che diventa il suo amante. Appare il “fantasma incestuoso inconscio”, annota Kristeva, quando Colette darà vita al romanzo Chéri (“La gioia perversa di iniziare un amante adolescente”). Lo ha da poco pubblicato quando nella casa delle vacanze conosce Bertrand, uno dei figli del secondo marito Henry de Jouvenel. Lei ha 47 anni, lui 17, la loro relazione dura ben nove anni. “Bertrand mi ha messo al mondo”. Più tardi, nelle sue memorie Bertrand scriverà: “Non ero previsto, non ero suo figlio, la conoscevo appena, ma aveva già assunto il dominio su di me”. Anche l’ultimo marito, Maurice Goudeket, è più giovane di lei di sedici anni, amico amante badante. Colette è stata sfrontatamente antifemminista, consapevole di aver già fatto tanto per la liberazione del suo sesso.
“Spesso ho fatto l’amore per obbligarmi a scrivere”, scrive con la sua scrittura tagliente Annie Ernaux, Premio Nobel per la letteratura 2022, nel suo Il ragazzo. “Speravo che la fine dell’attesa più violenta che ci sia, l’attesa di godere, mi facesse provare la certezza che non esiste piacere superiore a quello della scrittura di un libro”. Anche lei ha fatto della sua vita le sue opere, centellinate nel tempo con un linguaggio duro, essenziale. “Cinque anni fa ho passato una notte impacciata con uno studente che mi scriveva da un anno e aveva voluto incontrarmi. Era quasi di trent’anni più giovane di me”. Si rivedono nei weekend, A. lascia presto la ragazza con cui conviveva. “Durante la settimana ci mancavamo sempre di più. Era una sorta di continua creazione”. La professoressa Ernaux comincia a passare il weekend da lui, a Rouen, dove era stata studentessa negli anni Sessanta. “Appena arrivavo, abbandonate in cucina senza nemmeno toglierle dai sacchetti le provviste che avevo portato, facevamo l’amore. Nello stereo era già pronto un cd, partiva nel momento in cui mettevamo piede in camera, nella maggior parte dei casi i Doors. A un certo punto smettevo di sentire la musica. Gli accordi marcati, enfatici, di Love Street, e la voce di Jim Morrison tornavano a raggiungermi. Restavamo sdraiati sul materasso poggiato direttamente sul pavimento. (…) Mi sembrava di non essermi mai alzata da un letto, lo stesso letto da quando avevo diciotto anni, ma in luoghi differenti con uomini diversi e indistinguibili l’uno dall’altro (…) Con lui percorrevo tutte le età della vita, la mia vita”. Non ha l’enfasi di dire di essere rinata, ma ammette che “il fervore che mi riservava non mi era mai stato consacrato da nessun amante”. La relazione con il ragazzo la rende potente, inattaccabile, rispetto allo sguardo degli altri.
“Il mio corpo non aveva più età. Era necessario lo sguardo carico di disapprovazione dei clienti del tavolo accanto al nostro al ristorante perché tornasse a manifestarsi. Sguardo che, ben lontano da provocarmi vergogna, rafforzava la mia determinazione a non nascondere quella relazione con un uomo ‘che avrebbe potuto essere mio figlio’ (…) Ma sapevo, guardando quella coppia matura, che se ero con un ragazzo di venticinque anni era per non trovarmi davanti, continuamente, il volto segnato di un uomo della mia età, quello del mio stesso invecchiamento. Di fronte a quello di A., anche il mio era un volto giovane. Gli uomini lo sapevano da sempre, non vedevo in nome di che cosa io me lo sarei dovuto negare”. Annie Ernaux porta A. nei luoghi della sua giovinezza, vanno a Napoli, a Venezia, un weekend al Grand Hotel di Cabourg. Lo porta a teatro, a vedere La cantatrice calva di Ionesco, un’iniziazione che aveva già vissuto con i suoi figli adolescenti. Non si sente in colpa per il patto equo che ha fatto con lui, gli regala dei viaggi, gli evita di cercarsi un lavoro che l’avrebbe reso meno disponibile, sa di essere in posizione dominante, ma conosce la fragilità di una relazione amorosa. “Voleva fare un figlio con me. Un desiderio che mi turbava, e percepivo come un’ingiustizia profonda il fatto di essere in perfetta forma fisica e non poter più concepire”. (…) “La profondità del tempo che ci separava aveva una grande dolcezza… Ad ogni modo, attraverso la sua stessa esistenza, lui era la mia morte”. A un certo punto succede: il ruolo del ragazzo di “scoperchiatore del tempo” finisce, come era finito anche quello di iniziatrice di lei. A. lascia Rouen e torna a Parigi. E’ il momento per Annie Ernaux di iniziare a scrivere la storia del suo aborto clandestino di quando era giovanissima, diventato testo esemplare e film per le nuove generazioni.
Quando si sono conosciuti lei aveva sessantun anni e lui ventitré. Marguerite Duras e Yann Andréa erano una strana coppia: lei piccola piccola, con il maglione a collo alto sotto il gilet di pelle, la gonna pied-de-poule e gli stivaletti, i capelli grigi scarduffati e occhiali dalla montatura pesante che le coprivano il volto. Eppure era stata una bella donna, quella che appare ancora sulla copertina di L’amante, il suo libro più famoso. Lui ha i baffetti e i capelli castani sul collo, un bel viso nevrotico, gli occhialini tondi da intellettuale, era d’altra parte uno studente di filosofia. Nel percorso che abbiamo fatto in cerca del fantasma incestuoso e della libertà femminile è sicuramente la coppia più contemporanea e più impossibile, visto che lei era una vecchia scrittrice consumata dall’alcol e dalle Gitanes e lui un omosessuale anche se senza outing. Indivisibili per sedici anni, sono stati anticipatori di un fenomeno culturale dei nostri anni fluidi, la vicinanza sentimentale tra donne e gay. Si erano incontrati nel 1975 a Caen, in Normandia, alla proiezione del film cult della Duras regista, India Song. Lui che è un suo fan, innamorato della sua scrittura, aveva preso prima di uscire di casa un libro di Duras, Détruire dit-elle, per farselo firmare, e le chiede anche l’indirizzo. Le scrive per mesi, tutti i giorni, finché lei si decide a rispondergli. Eppure non risponde mai ai tanti che le scrivono, ma di lui conserva le lettere. Gli manda un racconto, che a lui non piace perché è troppo fisico, un po’ eccessivo, e non le scrive più. Ma Duras è così, sicuramente lui è più sentimentale. Allora lei gli invia due altri racconti. E’ appena uscita da una disintossicazione dall’alcol e scrive su Libération. Yann legge Libé, trova il numero e le telefona. Lei gli dice “venga, beviamo qualcosa insieme”.
Lui le ha portato in dono la Norma interpretata dalla Callas. Fanno un giro turistico in auto, cantando La vie en rose. “Puoi dormire qui se vuoi”. Yann non parte il giorno dopo e nemmeno quello dopo. Si amano e litigano furiosamente, lui se ne va e poi torna. Lei è rimasta una seduttrice e la sessualità incerta di lui la sconcerta, la fa impazzire: “Tutto si riduce al desiderio e alla mancanza di desiderio, tutto il resto è sfumatura”. Ma si amano, tanto da lasciarsi andare entrambi a scrivere senza rete dei loro sentimenti. Scrive Duras in Yann Andréa Steiner: “Si tratta di un amore che non ha nome nei romanzi e non ha nome neppure per quelli che lo vivono. Di un sentimento che in qualche modo non sembra avere ancora vocabolario, costumi, riti. Si tratta di un amore perduto. Perduto, da perdizione. Leggete il libro. In ogni caso, anche se gli siete ostili, per principio, leggetelo. Non abbiamo niente da perdere, né io da voi né voi da me. Leggete tutto. Leggete tutti gli intervalli che vi indico e quelli dei corridoi scenici che avvolgono la storia e la placano e ve ne liberano mentre li percorrete. Continuate a leggere e, all’improvviso, è la storia che avrete attraversato, con le sue risa, la sua agonia, i suoi deserti”. Esecutore testamentario ed erede letterario di Duras (con grande disdoro del figlio di lei, Jean Mascolo), Yann Andréa scrive M.D., racconto di un drammatico ricovero ospedaliero di Marguerite. La loro storia dura fino alla morte di lei, nel 1996. Yann la ricorda con i sentimentalissimi Questo amore e Ainsi. Gonfio di alcol anche lui, ultimo testimone della vita di una delle più grandi scrittrici del Novecento, muore nel 2014, l’anno del centenario della nascita di Marguerite Duras.
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