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La mostra

Dal Battista a Giuditta ai contemporanei, un'icona per tempi interessanti

Maurizio Crippa

“Perdere la testa” è il titolo suggestivo di una bella mostra inconsueta aperta da poco a Milano, interamente dedicata a questo tema iconografico: è un'occasione che dimostra quanto l’arte serva a far circolare idee e suggestioni che si attivano nel presente

"May you live in interesting times” fu il titolo della Biennale 2019 (poi venne il Covid). Del resto “che tu possa vivere tempi interessanti” è una maledizione cinese. Ogni tempo interessante contiene la sua nuvola minacciosa, la sua evocazione di orrore, e il nostro non ha motivi per fare eccezione denso com’è di guerre, di truculenze pubbliche o private esibite, di paure incombenti. Se c’è un’immagine che condensa, in realtà o in metafora, questo senso di minaccia è quella di una testa mozzata. “Invito a una decapitazione”, per dirla con Nabokov. Abbiamo visto, chi ha voluto guardare, le teste dei soldati tagliate ed esibite in Ucraina, la testa di Sinwar che sbuca dalle macerie di Rafah. Nel suo “Narcotopia” Patrick Winn racconta i Wa, che prima di divenire i signori asiatici della droga erano “tagliatori di teste che ritualmente piantavano su delle picche”. Ma non è solo orrore. E’ anche un’ossessione, una suggestione addirittura dell’arte, una delle immagini che creiamo per dare forma al mondo. La vendetta, la giustizia, la ferocia, l’eroismo. E’ persino stata, in passato, una raffinata mania del collezionismo. Perdere la testa. Qualcosa che ci lega (o ci stacca?) a noi stessi, alla percezione dei corpi, alla rappresentazione di una morte che però non esclude la vita: la vivezza estrema dei lineamenti umani che non sono più al loro posto è terribile e vera, gran tema d’arte e di letteratura. Ci affascina, ci turba. 

 

“Perdere la testa” è il titolo suggestivo di una bella mostra inconsueta aperta da poco a Milano, interamente dedicata a questo tema iconografico. Tra antico, Rinascimento, molto barocco e qualche efficace puntata nel contemporaneo (fino al 20 dicembre). A produrla una giovane galleria milanese, BKV Fine Art, nata a fine 2023 dall’incontro di tre giovani curatori e galleristi, percorsi e sensibilità diverse: Paolo Bonacina, Edoardo Koelliker e Massimo Vecchia. Galleria, quindi ambizione di essere nel mercato, specializzata in dipinti antichi e artisti italiani e internazionali del Novecento. Il luogo è uno storico palazzo di inizi Novecento, a due passi dalla Rotonda della Besana, al 16 della silenziosa via Fontana. Era la raffinatissima casa museo di Luigi Koelliker, cultore e mecenate delle arti figurative che aveva allestito una collezione magnifica ed eclettica. L’idea della mostra viene come sempre a un mix di fascinazione e occasione. Nella casa museo c’era un corridoio chiamato delle “Teste Mozze”, che Koelliker col suo gusto collezionava e di cui una parte, lombarda, caravaggesca, proveniva a sua volta dalla collezione di un artista cercatore di tesori come Giovanni Testori. Una collezione fatta di millimetriche variazioni sul tema: teste del Battista (il grande impatto delle pareti del pianterreno) disposte sulle loro alzatine da tavola di banchetto, e Salomè, Davide con la testa staccata di Golia, la parte per il tutto, Giuditta e la sua vendetta tremenda su Oloferne. Temi biblici e mitologici, un gusto in cui si associano la vendetta, il sacrificio, l’odio, l’eroismo.

 

Così nelle stanze di BKV Fine Art si spazia dal rinascimento al contemporaneo, con sessantaquattro opere (tra cui busti, ceramiche, teste che in passato erano appartenute a statue) di artisti che vanno da Juan Bautista Maino e Giuseppe Vermiglio, seguaci del Solario, di Bernardino Luini, di Francesco Cairo; fino a contemporanei come Julian Schnabel e Vik Muniz (sua una “Medusa, after Caravaggio - Picture of Junk”, composta con spazzatura industriale del 2009). E tra loro anche una splendida “Giuditta” in terracotta di Arturo Martini del 1932. Opere che provengono non solo dalla collezione ma da una serie di importanti prestiti privati. Luigi Koelliker collezionava, Giovanni Testori oltre al collezionismo coltivava la sua vena d’artista e una celebre propensione per il dramma dell’esistenza e dei corpi. Al tempo della sua “Erodiade” (1968) dipinse a penna stilografica una serie di di teste del Battista deformate, esasperate, un groviglio di linee e nervi. Qui in mostra ci sono due suoi acquerelli, parte dello stesso momento creativo e anche una “Testa di San Giovanni Battista” (1987) che Testori chiese espressamente a Guttuso di realizzare per una mostra. 

 

Ma non è solo una esposizione raffinata e dedicata ai soli collezionisti. E’ invece anche una occasione che dimostra quanto l’arte serva a far circolare idee e suggestioni che si attivano nel presente. C’è anche il senso del gioco, dello spettacolo. “Senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa… cioè che è sacro per lui è solo illusione, mentre ciò che è profano è verità”, si legge in esergo al bel catalogo: la citazione è da Feuerbach, “l’Essenza del cristianesimo”. Alle nostre latitudini mentali  perdere la testa è anche gioc di parole in cui non per forza scorre sangue. C’è in catalogo un breve divertissement di Gianni Biondillo, un gioco appunto su tutti i significati e le perdite della testa. E un altro scrittore milanese, gran testoriano e dunque inevitabilmente attratto da questa a esposizione, Luca Doninelli, ha scritto sul Giornale a proposito della nostra epoca che preferisce non avere pensieri. Tanto “a pensare ci penserà l’Ia. Verrà e avrà i nostri occhi”. “Tagliare la testa e tagliare la facoltà del pensiero, ecco il vero incubo ossessivo dei nostri “tempi interessanti”. Anche se all’apparenza, alla superficie, preferiamo una civiltà senza pensieri, sans souci. Ma il dramma non si può scansare, neppure nel gioco. Così “la testa di Medusa, tagliata, continua a uccidere”, riflette Doninelli: “Se tutte queste teste sono giunte a noi, ben catalogabili tra classici, secenteschi, caravaggeschi, barocchi, giù giù fino a noi, è perché tutte le teste sono, in fondo, come quella della Medusa, e continuano a uccidere ben oltre l’attestato di morte”. Una mostra per tempi interessanti.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"