Cambiamenti
Non ci sono più i manoscritti di una volta. La filologia al tempo del pc
Le nuove testimonianze scritte nascono già in formato digitale. Quest'evoluzione porterà al tramonto del concetto di testo base: il mondo virtuale consente la coesistenza di file in cui le versioni si affiancano invece di soppiantarsi
Contrariamente a quanto si può supporre, la filologia è una scienza proiettata nel futuro. Presuppone che gli scrittori compongano testi allo scopo di lasciar scoprire le proprie fonti a detective delle scartoffie magari non ancora nati; a questo scopo guarda avanti, non indietro, nel tentativo di individuare le tecnologie che consentano la ricostruzione più accurata di un passato che, se non fosse per poche tracce d’inchiostro, sarebbe perduto del tutto. Cosa accade però quando l’inchiostro non c’è più? E’ il problema della filologia di oggi, come verrà svolto il lavoro dei filologi di domani; se ne è occupato un interessante convegno, organizzato dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori al Laboratorio Formentini di Milano, e intitolato “Il futuro della memoria. Dove come cosa salvare”.
Con una sintesi un po’ brutale, si può dire che la filologia ha vissuto tre grandi stagioni: una relativa all’analisi di testi esclusivamente manoscritti, prima dell’invenzione della stampa; una, al cui tramonto abbiamo appena assistito, concentrata sulla felice coesistenza fra testi a stampa e scritti a mano; una, sorta da qualche decennio, in cui i testi nascono direttamente su supporto digitale, eliminando quasi del tutto le testimonianze cartacee su cui la filologia ha fatto affidamento per secoli.
Ora, il problema principe non è di per sé come accedere agli archivi digitali. Grazie a volenterosi ricercatori la filologia sta cambiando faccia, sia nell’input, sia nell’output: nel primo caso alcuni autori donano – con aggiornamenti periodici – il proprio archivio digitale a quelli che con vezzo demodé si chiamano ancora “Centri manoscritti”, garantendo via via tutti gli aggiornamenti del caso; nel secondo, anziché industriarsi con trasferte ardite o microfilm, oramai si dispone di strumenti informatici in grado di ricostruire la storia delle varianti su un file e di sopperire all’inevitabile decadimento dei supporti (pensate, per esempio, a un floppy-disk). Una soluzione pratica in qualche modo si trova; come sempre, i problemi di rilievo restano quelli teorici, che sono di natura lavorativa, autoriale e identitaria.
Cambia inevitabilmente, grazie a quest’innovazione, il senso del lavoro del filologo. Con sintesi vieppiù brutale, si può dire che per lunga pezza è consistito nell’individuare un testo base (il più affine alle intenzioni dell’autore) rispetto a cui individuare fonti e varianti. Secondo una scuola consiste in una specifica versione, secondo un’altra in un testo ideale che risulta dalla selezione del meglio delle versioni diverse. Il lavoro su file probabilmente condurrà al tramonto del concetto di testo base; mentre la carta impone infatti all’autore una selezione drastica, a causa del suo essere spazio delimitato, il pozzo di storage virtuale senza fondo consente la coesistenza di file in cui le versioni si affiancano, anziché soppiantarsi.
Ciò deriva dalla questione autoriale. Quando uno scrittore può ritenere di avere finito? Ai tempi dei manoscritti, il testo finito era (semplifico) quello ricopiato in bella; al tempo della stampa, era quello che passava dalla scrittura a mano al torchio. Adesso la possibilità di intervenire su file – anche da parte di terzi, anche da remoto – consegna il testo a un destino di permeabile provvisorietà, che agli occhi dell’autore fa perdere rilevanza a cancellature e correzioni. E’ verosimile che un autore ritenga “finito”, benché modificabile, un file spedito via mail a un lettore fidato, reputando invece i file di prova sul pc molto meno rilevanti del loro equivalente cartaceo, cioè quaderni e taccuini. La digitalizzazione ci rende tutti emuli di Benedetto Croce, che volle lasciare ai posteri un misero pacchettino di appunti, a fronte di una proliferazione straordinaria di pubblicazioni.
Ne consegue la questione identitaria: gli scrittori sono ciò che scrivono? Durante il convegno, Maurizio Ferraris ha addotto l’esempio di Husserl, la cui mole insormontabile di appunti custodisce l’implicito timore che possano esserci scritte anche delle fesserie. Husserl era un notorio grafomane, ma è improbabile che desiderasse vedere smascherate dalla filologia le proprie fole; tale contegno ha portato molti scrittori a bruciare carte o, nelle migliori ipotesi, a pensarci prima di scrivere. La scrittura digitale ci ha resi invece tutti grafomani; il rischio che gli autori finiscano per rimediare potenziali figuracce alla Husserl è elevatissimo, se la filologia digitale non stenderà un pietoso velo.