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In memoria

Un ricordo di Bernard Manin, studioso francese che teorizzò la“democrazia del pubblico”

Antonio Campati

“Principes du gouvernement représentatif” propone una puntuale ricostruzione storica e concettuale del governo rappresentativo e ripercorre la genesi di alcuni istituti di partecipazione e di rappresentanza che oggi consideriamo, erroneamente, con una certa superficialità

Nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre è venuto a mancare Bernard Manin, illustre studioso francese, docente all’École des hautes études en sciences sociales, ma in passato anche alla New York University e all’Università di Chicago, oltre che relatore in diverse altre accademie, alcune delle quali gli hanno tributato importanti riconoscimenti nel corso della sua carriera. E’ stato autore di numerosi saggi e libri dedicati alla deliberazione, al sorteggio, al liberalismo e, andando a ritroso, alla socialdemocrazia.

 

Ma da quasi trent’anni, chiunque si voglia affacciare allo studio della democrazia rappresentativa non può prescindere da un suo libro, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1995, intitolato “Principes du gouvernement représentatif”, che infatti è ormai un classico, disponibile in dieci lingue. In Italia è apparso per i tipi del Mulino nel 2010, tradotto da Valeria Ottonelli e con una prefazione di Ilvo Diamanti. Il successo di questo libro è spesso ricondotto alla formula “democrazia del pubblico” che in effetti è divenuta di uso comune, per lo meno tra gli studiosi e tra gli osservatori attenti alle dinamiche politiche. Ma la fortuna di “Princìpi del governo rappresentativo” è dovuta soprattutto al fatto che propone una puntuale ricostruzione storica e concettuale del governo rappresentativo, che prende il via con una frase efficacissima con la quale si apre l’introduzione: “I governi democratici contemporanei si sono evoluti a partire da un sistema politico che era concepito dai suoi fondatori come opposto alla democrazia”. 

 

I princìpi richiamati nel titolo non sono infatti idee o ideali astratti e senza tempo, ma assetti istituzionali concreti che – ecco un punto centrale nell’analisi di Manin – furono inventati in un dato momento della storia e che, da allora, sono osservabili e presenti contemporaneamente in tutti i governi descritti come rappresentativi. Il motivo di maggior interesse per (ri)leggere questo libro è allora legato alla possibilità che offre di ripercorrere la genesi di alcuni istituti di partecipazione e di rappresentanza che oggi consideriamo, erroneamente, con una certa superficialità. Mi limito a due accenni. Il primo riguarda le elezioni, alle quali sono dedicate molte pagine, e particolarmente interessanti sono quelle che ricostruiscono le fasi durante le quali, nonostante esse rimandino a un metodo meno egualitario rispetto all’estrazione a sorte, tuttavia trionfarono senza discussioni, proprio nel momento in cui veniva dichiarata l’eguaglianza politica.

 

Il secondo accenno riguarda quello che Manin chiama il “principio di distinzione”, che ricorda come il governo rappresentativo venne istituito con la piena consapevolezza che i rappresentanti eletti sarebbero stati, e avrebbero dovuto essere, distinti dai cittadini che li eleggevano. Già solo questi due richiami danno l’idea di come i lavori di Manin siano ancora utili per studiare, seriamente, le trasformazioni della democrazia rappresentativa.