Tommaso Cerno, il giornalista che visse due volte

Da Repubblica al Tempo, da De Benedetti agli Angelucci: “Vi racconto cosa mi è successo”

Salvatore Merlo

Cerno confessa: l’Espresso e Cdb, la convivenza con Calabresi, la fuga da Repubblica, gli anni in Senato col Pd e l’approdo a destra. “Con questa sinistra stupida e sottovuoto non ci posso stare”

“Carlo De Benedetti, che mi nominò direttore dell’Espresso, diceva che sono ‘strambo’. Ed era un complimento. Significa che sono un irregolare, che ragiono con la mia testa”. Va bene, Tommaso Cerno, però altro che “strambo”. Qua c’è forse una storia unica: 49 anni, ex direttore dell’Espresso, ex condirettore di Repubblica, ex senatore del Pd e oggi direttore del quotidiano conservatore il Tempo. Dai De Benedetti agli Angelucci. “Come non ricevevo mai telefonate da De Benedetti, in questi otto mesi di direzione al Tempo non ho mai ricevuto una telefonata dagli Angelucci”. Massima libertà? “Assoluta”. Probabilmente oggi sei il giornalista più vivace e dialetticamente dotato della destra italiana, il migliore dei meloniani verrebbe da dire. Un’evoluzione rara, diciamo. Incredibile forse. “E se vuoi ci puoi anche aggiungere che sono gay”. Ma non eri pure di sinistra? “Credo di esserlo ancora, solo che non riconosco più la sinistra. E credo che la libertà ora stia a destra”. Quindi voti Meloni? “Non l’ho votata e credo che non voterò per molto tempo. Non ho nessuna voglia di militare”.

 

L’hai più sentito De Benedetti? “Recentemente mi ha scritto un messaggio”. E che diceva? “Che non mi riconosce più”. E tu che gli hai risposto? “Gli ho detto che lo ringraziavo, perché quel non riconoscermi significa che sono rimasto quello che ero, ovvero lo strambo di cui parlava lui, cioè quello che non vuole ripetere a paperella ciò che si dice nelle chat del Partito democratico”. Quelli che ti hanno in antipatia però dicono che sei un un furbo che arriva al punto di ingannare se stesso, quando gli conviene. Un arrampicatore, come il Bel Ami di Maupassant: il giornalista che scala la società francese attraverso la bella scrittura, i sofismi e il pelo sullo stomaco. Un cinico. “Quando ero a Repubblica queste stesse persone mi guardavano come se fossi stato un negro, un albanese, un immigrato clandestino, un impostore. Ora pensano che io sia un traditore. Ma non è così. Questa è una visione stupida e manichea delle cose”.

 
Come sono le cose invece? “Le cose sono che da ragazzo ero cattolico e facevo lo scout, ma fui cacciato dagli scout perché mi infilavo nel sacco a pelo dei capi scout. Le cose sono che sono sempre stato di sinistra, ma a diciott’anni mi iscrissi ad Alleanza nazionale perché volevo far intitolare il teatro di Udine a Pier Paolo Pasolini. E solo An ci stava. Mentre gli altri, nel centrosinistra, avevano paura di Pasolini omosessuale. Le cose sono che sono nato in una famiglia democristiana con un nonno fascista e una nonna partigiana. Le cose sono che sono nato in Friuli, a 11 chilometri dalla cortina di ferro, ed essere fascisti forse era brutto ma essere partigiani a volte significava passare per quelli che avevano sparato agli italiani nelle foibe. Le cose sono che a diciott’anni avevo deciso di votare Craxi ma crollò la Prima Repubblica e mi trovai un imprenditore anomalo, Berlusconi, a capo della destra e un democristiano, Prodi, a capo della sinistra. Roba da capogiro. Forse tutto questo, l’insieme di queste cose, mi ha spinto a essere contraddittorio”.

 

Strambo, ecco. Eppure a sinistra ti guardano male. Anzi malissimo. “Sono loro a essere dei fascisti e dei conformisti. Loro pensano tre quarti delle cose che dico anche io, ma non le possono dire”. E cosa dovrebbero dire? “Che questa sinistra di oggi è gommapiuma, è il sottovuoto spinto come Elly Schlein. Il nulla cosmico. Ed è contraddittoria. Pensa alla Repubblica di Ezio Mauro: era grande perché l’antidoto al berlusconismo l’aveva costruito scovandone i difetti attraverso il microscopio del giornalismo. Quel giornale non aveva bisogno di dire ogni tre per due che Berlusconi era il fascismo. Oggi invece se la cantano e se la suonano, questa musichetta vuota, perché non hanno più niente da dire e ricorrono agli argomenti del 1922 per affrontare Meloni. Ed è tragico. E forse anche un po’ comico. Scimmiottano la grande Repubblica, ma in chiave inconsapevolmente satirica”.

    

Marx osservò che i grandi eventi e personaggi compaiono nella storia due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. “Eugenio Scalfari era un intelligentissimo anticonformista, un libertino geniale. Non come questi bacchettoni di oggi. Io a questa sinistra contesto l’assenza di idee e poi contesto la deriva grottesca del giornalismo di sinistra che vede ovunque camicie nere e olio di ricino. Si tratti di Meloni o di Donald Trump. Come se fosse tutto sempre la stessa cosa. Meloni non la capiscono, perché nemmeno la guardano. Patetico. Come potrei mai stare con questi? Il Pd è un ottimo materiale sottovuoto. Privo d’aria, di fantasia e di libertà”. Oggi il direttore di Repubblica è Mario Orfeo. “Lo stimo, Orfeo. E stimo anche Maurizio Molinari, che ha avuto una grande forza a resistere all’orrore palestinese che ha invaso la piazza di sinistra. Molinari è stato una diga culturale. Orfeo è bravo e farà benissimo. Io di Repubblica contesto la contaminazione della sua anima: pur di sembrare la grande Repubblica di Ezio Mauro, sono disposti a dire qualsiasi stupidaggine”.

    
Circola una leggenda a Repubblica: un pomeriggio ti sei alzato dalla scrivania di condirettore, sei uscito dal giornale come un razzo lasciando addirittura l’impermeabile nella tua stanza e non sei mai più tornato. Quell’impermeabile è ancora lì. In Largo Fochetti. “È vero. Uscii lasciandomi tutto alle spalle, compreso l’impermeabile che m’aveva regalato un amico. Decisi di candidarmi al Senato con il Pd, con Matteo Renzi. Quindi mi alzai e me ne andai”. Gli sceneggiatori di “Boris” direbbero: Cerno si alzò così, de botto, senza senso. “Un senso c’era per la verità. Ero stato direttore dell’Espresso, un Espresso che evidentemente piaceva. Ma era cambiato l’editore. Carlo De Benedetti aveva ceduto tutto ai suoi figli. Così mi venne proposto di diventare ‘condirettore di Repubblica’. Una cosa che non vuol dire niente. Nel senso che si è ‘condirettori’ di un direttore, non di un giornale. E il problema, in quel momento, a Repubblica, tra gli altri, era che il direttore non ne voleva sentir parlare di condirettori. Quindi mi trovai subito in una situazione difficilissima. E strana”. Stramba, diciamo, per restare in tema. Il direttore era Mario Calabresi, e siccome il giornale andava male tutti dicevano che tu stavi per prendere il suo posto. Cosa mai avvenuta. “Io praticamente nemmeno lo conoscevo, Calabresi”. Come non lo conoscevi? “Facemmo un pranzo insieme, una cosa completamente ipocrita poco prima della mia nomina. Avevo presentato un suo libro alcuni mesi prima, peraltro senza nemmeno averlo letto”. Come fanno tutti. “Stare a Repubblica per me, da un  certo punto di vista era un sogno. Se anni prima mi avessero chiesto: ‘Cosa vuoi fare nella vita?’, nemmeno avrei osato rispondere ‘il direttore dell’Espresso e il condirettore di Repubblica’”. E invece accadde. “Altroché. Parlavo con Scalfari. Era un sogno, ripeto. Solo che lì ero solo. Solo davvero. Non avevo nessuno della sinistra culturale o politica alle spalle. Ero isolato, senza protezione, e per giunta, come dicevo, a fare il condirettore di un direttore che non voleva condirettori. In pratica lì dentro ero una specie di tumore. E come tale mi trattavano. Mi ricordo che stavamo dentro a un bislacco ufficio a vetri. Io guardavo Calabresi dal vetro, e Calabresi guardava me. La gente non entrava manco nella mia stanza, perché aveva paura di essere vista dal direttore. Tutta una roba da matti”. E quindi un pomeriggio ti alzi da quella scrivania, nell’ufficio a vetri, e te ne vai: zaaac! Senza impermeabile. “Andai a incontrare Renzi, che mi voleva candidare. E tieni conto che prima io avevo visto Renzi una sola volta nella vita. Gli avevo fatto un’intervista su Repubblica, dove lui diceva che non si sarebbe mai alleato con Berlusconi. Lo avevo votato alle prime primarie, quelle nelle quali aveva perso contro Bersani, ma non l’avevo nemmeno votato la seconda volta. Addirittura da direttore dell’Espresso avevo fatto le inchieste su suo padre. E avevamo persino scazzato in televisione, da Lilli Gruber. Eppure ci ritrovammo. Lui era già un mezzo sconfitto, e io lo trovavo simpatico forse perché già lo vedevo perdente. Da quel momento ho iniziato a percepire tutto l’odio che Renzi aveva raccolto al di là di ogni razionalità in Italia. Un odio che si vedeva e si riversava anche contro di me. Specialmente da sinistra”. Per esempio? “Beh, come l’odio di Alessandro Zan, che è evidentemente un omofobo, lo dico tra parentesi”. Zan è un leader della sinistra dei diritti civili. In che senso sarebbe omofobo? “Nel senso che è uno che pensa male di tutti i gay che non gli dicono che è il più bravo di tutti”. E tu non glielo dicevi? “No. Io ero l’unico senatore gay dichiarato nella scorsa legislatura. E il ddl Zan non l’ho votato perché era come la corazzata Potemkin di Fantozzi: una cagata pazzesca”. Ma torniamo a Renzi e all’impermeabile, ti prego. “Certo. Lasciai l’impermeabile. E incontrai Renzi all’hotel Bernini, sulla sommità di Piazza Barberini, in centro, a Roma. La scena aveva qualcosa di comico, se vogliamo. Io ero senza impermeabile, per l’appunto, mentre lui invece indossava il chiodo. Quello stesso di Maria De Filippi, te lo ricordi?”. Altroché. “Guardavamo l’orizzonte, dalla terrazza dell’albergo, ed eravamo entrambi depressi. Lui capiva che era finita la politica, che quello era pressoché l’ultimo giro, che non sarebbe più stato premier né segretario. Di lì a poco sarebbe pure uscito dal Pd. E anche io avevo capito di avere chiuso con Repubblica”. 

     
Però invece hai chiuso anche con Renzi. Avete rotto, avete litigato? “Con Renzi non si rompe mai, e non si fa mai davvero amicizia. È un politico puro”. E di Giorgia Meloni sei amico? “Non la frequento, non ci vado a cena, non l’ho mai vista fuori da un’intervista e da un rapporto ordinario di lavoro”. Cosa ti piace di più di Meloni? “Che sa di miele”. Che significa? “Lo dicono alcuni miei giovani amici gay, e io mi sono interrogato su cosa significasse questa espressione. Credo che significhi che lei è lo specchio riflesso delle critiche che le fanno. Respinge l’immagine di ‘Voldemort’ che le vogliono appiccicare addosso. Cioè: sa di miele. Non è come dicono loro”. Dunque non la frequenti, Meloni. Ma il tuo compagno è un consigliere regionale di Fratelli d’Italia. “È forse qualcosa di più. È un berlusconiano della prima ora, è stato lo storico sindaco di Cividale del Friuli, poi si è avvicinato a Fratelli d’Italia e ora è consigliere regionale. Ma non frequentiamo Meloni. Invece, se posso, vorrei che scrivessi ‘marito’ non ‘compagno’”. Ma il matrimonio omosessuale non c’è in Italia. “No, ma c’è una legge sulle coppie di fatto che è persino migliore del matrimonio. E al matrimonio ci si arriverà. Da destra”. Come da destra? “La battaglia del matrimonio gay prestissimo diventerà una battaglia di destra. Accadrà per effetto della deriva idiota della sinistra. Se ci fai caso quello che sta avvenendo è che la sinistra non parla più di ‘coppie’ ma di ‘uteri’ e di ‘inseminazioni’. Presto la sinistra dirà che la famiglia è superata, che persino il divorzio va abolito, visto che la famiglia è quella della Murgia. Aperta, fluida, imprendibile. A seconda di come ti senti e di chi c’è intorno dilati il concetto di ‘famiglia’. Così sai che accadrà inevitabilmente? Accadrà che la destra a un certo punto dirà: no, la famiglia è la famiglia. E saranno i gay a difendere il matrimonio. Insieme alla destra. Piano piano la destra dirà: l’importante è che sia matrimonio, l’importante è che sia famiglia. Anche omosessuale”. E sono idee popolari a destra queste secondo te? “Lo sono, molto di più di quanto non si immagini. Quando dico queste cose la gente tira un sospiro di sollievo. Perché anche a destra ci sono i gay, anche a destra le persone hanno figli gay, parenti gay, amici gay, persone a cui vogliono bene che sono omosessuali”. Come tutti.
  

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.