Mostre senza il quid
A Roma si celebra Boetti, altra vittima collaterale del sistema dell'arte italiano
Tra opere d’avanguardia e dualismi, il lavoro di Alighiero Boetti attende ancora una retrospettiva che gli renda il giusto omaggio nel panorama artistico del nostro paese
Non ho visto, ancora, la mostra su Alighiero Boetti all’Accademia di San Luca a Roma. Ma alla mia età di Boetti ne ho visti abbastanza per potermi immaginare una, più di una, mostra del suo lavoro. Il mondo dell’arte si divide fra quelli che conoscono il lavoro di Boetti e quelli che hanno conosciuto Boetti più o meno intimamente e per questo si riferiscono a lui semplicemente con “Alighiero”. D’altronde, è stato lo stesso Boetti a fare questa distinzione firmandosi “Alighiero e Boetti”. Io sfortunatamente appartengo al primo gruppo e posso parlare solo del lavoro non della persona. Se fosse una persona, invece, la mostra di Roma apparterrebbe al secondo gruppo di persone: è curata dalla moglie Caterina e dall’amico e artista Marco Tirelli. Il titolo è boettiano doc: “Raddoppiare Dimezzando”.
Boetti non era schizofrenico ma giocava con l’idea di sdoppiamento. Era un artista serio che non si prendeva sul serio. Tutto può essere doppio, tutti ci ripetiamo, tutti prima o poi diventiamo imitazione di noi stessi. L’unicità dell’opera d’arte per Boetti, senza stare a citare la riproducibilità del solito Walter Benjamin, era un po’ una bufala. Tanto è che in mostra troviamo una sorpresa, la scultura del 1969 “Io che prendo il sole a Torino”, presente in contemporanea anche alla mostra dell’Arte Povera a Parigi, alla Bourse di Pinault. A Parigi c’è, come dire, la versione “originale” mentre a Roma la versione “nostalgica” del 1992. Perché negli anni Sessanta gli artisti non pensavano al futuro, facevano opere tra l’effimero e il riciclabile. Negli anni Sessanta quello che poi diventerà collezionismo era più un atto di beneficenza per salvare le opere considerate più spazzatura che arte dalla discarica.
I tempi poi sono cambiati e gli operatori sanitari ante litteram si sono scoperti collezionisti con veri capolavori. A molti artisti tutto ciò non faceva piacere, anche se Duchamp non aveva trovato nulla di male a rifare il suo famoso orinatoio del 1917 molti anni dopo. Onestamente non ci trovo nulla di male neanche io. Quindi, se Boetti nel 1992 ha deciso di rivoler prendere il sole a Torino, benché ormai vivesse a Roma, ha fatto più che bene.
Diverso è il caso dell’autoritratto/fontana con la testa che fuma del 1993, anche questo in mostra di Parigi, pensato fin dall’inizio in bronzo in un’edizione di vari esemplari. La mostra di Roma è a dimensione umana – forse troppo – nel senso che si continuano a fare mostre di Boetti molto personali, mentre è assurdo che a uno dei più importanti artisti del Ventesimo secolo, italiano, nessuno dei nostri musei abbia mai dedicato una vera grande mostra come invece hanno fatto importanti musei internazionali. Nel 2012 il Maxxi si fece passare sotto il naso una fantastica retrospettiva organizzata da Tate Modern di Londra, Reina Sofia di Madrid e Moma di New York. Per poi, un anno dopo, mettere in piedi una mostricina, Boetti a Roma, del tutto irrilevante: come se Sinner non giocasse a Wimbledon per partecipare a un torneo del Tennis club di San Candido.
Nemmeno Germano Celant, il Beppe Grillo dell’Arte povera, che doveva mettere il suo timbro di curatore su tutti i più importanti artisti italiani del Dopoguerra, ha mai voluto o è riuscito a fare una grande mostra di Boetti, artista troppo libero e carismatico per sottostare alle strategie del sistema Celant. La mostra di Roma è quindi un commovente e bellissimo, ma ennesimo, memento mori per un artista vittima collaterale del sistema dell’arte italiano dove si confonde il “fatto in casa” con il “fatto bene” o almeno con il “fatto come si dovrebbe fare una volta per tutte”.