L'intervista
Andrée Ruth Shammah e l'idea di un teatro che sia luogo di libertà
L'ultima regia, il nuovo libro, il Franco Parenti come un bene destinato a rimanere e infine Milano. Poi il giorno più duro: “Il 7 ottobre, quando mi sono sentita di nuovo ebrea”
“Ho passato la notte sveglia a fare un elenco degli amici”. Mai una. Mai due. Mai tre. Sempre cento: Andrée Ruth Shammah non può annoiarsi con l’ordinaria amministrazione – non che la schivi, anzi, normalmente si occupa anche di quella – ma la sua mente è un parapiglia, notturno e diurno, di tantissime cose. Le montagne russe, in confronto, son cavalli a dondolo. Cose da fare, cose da dire, cose da immaginare, da studiare e da organizzare. Sta sveglia di notte, scrive agli amici, chiede contributi, pensa e offre progetti, unisce persone, le presenta l’una all’altra via WhatsApp, coinvolge, stravolge, si rompe ancora la testa nel cercare di fare – da direttrice e fondatrice quale è – un teatro che “parli al pubblico” senza cedere alla demagogia o al facilismo, si tiene salda, si tiene alata, si tiene giovanissima ma sa bene che il futuro del teatro Parenti non sarà suo, quindi ci lavora già. “Sapendo bene una cosa: che continuità non significa ripetizione”, e mentre lo dice apre un discorso che guarda al lungo e al lunghissimo periodo e intanto tu, prigioniero del periodo brevissimo, ti stai ancora accomodando sulla sedia. Ti sfili il giubbotto e lei ti racconta un progetto per la stagione 2025/2026, tu sei lì (che ascolti) ma lei è già là (che vede cose fatte). E’ chiaro che vive in un tempo che non è il tuo, un tempo in cui tutto è presente e tutto sta accadendo, chiaro che ha un calendario che si srotola per due isolati, che un giorno è un frammento, ventiquattro ore sono minuti e lei non smette mai, né di notte né di giorno, di elaborare, riflettere, rimuginare. “Nella testa di Seneca si sente / il motorino di un frullatore”, cantava Battisti in “Tubinga”, ma anche nella sua c’è un Moulinex, un instancabile utensile che ronza, trita macigni, rimescola.
La domanda, secca: è vero che lo spettacolo “Chi come me” – testo del drammaturgo e scrittore Roy Chen (del suo bellissimo romanzo “Anime”, pubblicato da Giuntina editore nel 2022, abbiamo parlato qui sul Foglio) – sarà la sua ultima regia, come dichiarato in più occasioni? La risposta prende la rincorsa. “Allora, mettiamola così: dopo un periodo della mia vita in cui ho voluto essere visionaria, coi piedi per aria e non per terra e sempre con l’obiettivo di riuscire a fare cose anche al di là delle possibilità, è arrivato un momento in cui mi sono detta: stop, adesso che più o meno è stato costruito quello che immaginavo, cosa posso fare per chi resterà dopo di me? E in una città come Milano, poi, che costruisce serate speciali e ospitalità particolari di continuo… Diciamo che dalla fase dell’investimento sono entrata nella fase del consolidamento. E io credo di essere necessaria al consolidamento”.
E ripercorre le tappe di una storia faticosa e bella, piena di maestri cui render conto tra sé e sé, maestri cui essere, in un certo senso, fedele. Lo fa in quest’ufficio luminoso, funzionale, inevitabilmente tappezzato di foto – alle sue spalle, lei stessa qualche anno fa con Alberto Arbasino e Giorgio Strehler. “Il Parenti è un teatro che è nato con una grandissima partecipazione dei milanesi”, premette, “perché io, quando ho chiesto soldi, l’ho fatto sempre e solo per mettere a posto i muri, che sono muri del Comune di Milano. Ma per gli spettacoli non ho mai chiesto una lira. I soldi dati alla Fondazione sono soldi dei cittadini, e questo teatro è e deve restare un bene per la città. Non è un bene che si consuma. E’ un bene che rimane. Forte di questo presupposto, ne ho chiesti altri. E mi sono esposta con le banche, coi mutui. Le piscine, per esempio, sono ancora un mutuo enorme”. Il riferimento è ai Bagni Misteriosi, bene monumentale vincolato, ex centro natatorio e culturale costruito in stile razionalista negli anni Trenta, adiacente al teatro e gestito in convenzione con la Fondazione Pier Lombardo, a partecipazione mista pubblico e privato – un luogo che definire affascinante è dir poco.
“L’ultimo tassello di questo progetto, tutto mirato a permettere a coloro che ne avranno bisogno di continuare a far teatro, è avere spazi che possono essere affittati e gestiti. Tipo a Bereguardo, dove ho la sartoria da 50 anni. Lì vorrei realizzare una sala prove con sei camere da letto, per mettere la gente a provare tranquilla… Capisci? Volendo lasciare delle eredità, il mio primo pensiero è quello di proteggere la gente che pensa, che lavora, che recita, che scrive. Ma tornando alle questioni concrete: Iva, contributi, banche – abbiamo molti impegni aperti. Certo, finché ci sono io che so fare i salti mortali e uno più uno uguale undici, ok. Ho un’età, una storia, una personalità, una credibilità. Chi, altrimenti? Quindi lo faccio. Mi sono data tre anni. Lei sa quanta fantasia ci vuole per chiudere dei debiti? Molta di più che per fare una regia! Nel frattempo, le scelte artistiche fatte dal Parenti non deflettono e sono sempre di un certo livello, possiamo dirlo?”.
Lo diciamo. E aggiungiamo: sempre più varie. Questo teatro, che vanta cinque sale, è un luogo aperto, ricco di proposte, di festival, di laboratori, di momenti di svago. E’ una casa, per chi lo vuole. Un posto in cui passare il tempo e stabilire e mantenere relazioni. E, ovviamente, vedere molti spettacoli, che vanno dal teatro classico a quello più sperimentale – molto interessanti i lavori della Compagnia residente, i Gordi.
Ma dunque? Ultima regia? Penultima? Cosa possiamo dire? “Che i pensieri di una regia sarebbero un intralcio, per me, in questo momento. Perché regia non è solo mettere in scena. Ma pensare a cosa dire, a come farlo dire, sempre tenendo presente il pubblico che lo verrà a vedere, senza far vincere il narcisismo o l’esibizione della tua presunta bravura. Insomma, è un lavoro fittissimo, fatto di letture, riletture, ore in teatro, molti pensieri… Quindi, ecco che finalmente le rispondo: ‘Chi come me’ sarà la mia ultima regia? Sì, in senso stretto. Se poi ci saranno altre regie a mia firma saranno cose che ho già fatto, che ho già pensato, o che so come fare. Cioè cose che non mi richiedono uno sforzo nuovo, che toglierebbe tempo a tutto il resto, che per me è importantissimo: immaginare il futuro”.
Per tenersi sgranchita, nei minuti liberi, sta anche scrivendo la sua biografia. “Il mio cosiddetto libro”, lo chiama, mentre, già che c’è, telefona in casa editrice per ottenere un’informazione circa la copertina. Uscirà per La Nave di Teseo e dovrebbe intitolarsi “Messa in scena di una vita”. “A un certo punto ho anche pensato ‘Diario di una teatrante’, ma non so, vedremo”. E ha un incpit niente male: “Se fossi stata presente al mio funerale – recita tra orgoglio e autoironia – l’avrei fatto meglio” (c’è chi non immagina di riposare proprio mai). Il racconto procederà a ritroso, dal funerale al passato, attraverso tredici incontri con una ragazzina. Aneddoti e una visione del mondo che mettono in relazione il teatro e la vita. “Racconto anche di quando i brigatisti sono venuti a prendere mio padre”. Ma non anticipa nulla – “sulla pagina ci sarà tutto”, garantisce ridendosela.
La questione che preme, a questo punto, è però un’altra. “Stavo scrivendo, ma poi mi sono bloccata. Ferma. Incapace di proseguire. Era il 7 ottobre. Non ho più scritto una parola”. E qui entriamo in un’altra zona della chiacchierata. Più intima, eppure in inevitabile contatto con ciò che riguarda chiunque. “Il dolore è stato grande. Grandissimo anche quello di aver visto rovesciati tutti i concetti. Questo sì, mi ha ammutolito. Il punto di rottura è stato la manifestazione delle femministe, che hanno rifiutato le donne stuprate di Israele. Perché, per loro, quelle donne non sono niente? Io sto vivendo un grande e doloroso distacco da gente che credevo amica, donne che pensavo sorelle, che credevo capaci di capire. Da lì è cominciato un periodo in cui mi sono detta che forse non era il caso di parlarne con uno per non discutere, con l’altro per non litigare… E, come tutti, ho assistito e assisto impotente a questa ondata di odio antiebraico”. Scuote la testa. Tenta di dire, poi si ferma. Quasi lo sussurra: “Ed ecco che, di colpo, sei di nuovo ebrea”. E’ il primo momento in cui, da quando è iniziata la nostra conversazione, nel discorso si insedia una pausa. “Strano, no? Eppure… Io, all’improvviso, a settantacinque anni, mi scopro di nuovo ebrea. Lo sapevo, l’ho sempre saputo. Ma adesso è diverso. Prima non mi sono mai sentita così come mi sento ora. E penso a mia madre che è scappata, incinta di me, dalla Siria. Io lo raccontavo, sai? Lo raccontavo perché faceva chic. Faceva esotico. E adesso mi ritrovo a pensare, con ben altri sentimenti, a tutta quella gente che è dovuta scappare, tutta quella gente che volevano uccidere. E’ colpa di Netanyahu se c’è l’antisemitismo? Ma figuriamoci. A me lui non sta simpatico, però che c’entra? Qui il discorso è un altro. Vede, una notte di molti anni fa i miei genitori sono stati avvertiti e hanno dovuto scappare gambe in spalla – scappare lasciando tutto. Dunque per me è impossibile non pensare a tutti coloro che dalla Libia, dall’Egitto, da tutti i paesi arabi, hanno dovuto scappare facendo la stessa cosa, cioè – ripeto – lasciando tutto. Qualcuno li farà, prima o poi, i conti di quel che ci hanno preso?”. Un cenno, le dita che sfarfallano nell’aria quasi a dire: va bene, è il passato.
“Adesso non guardo più la televisione per non innervosirmi, sa? Per non soffrire. Non vedo i telegiornali. Ho delle chat, certo, perché così ho le informazioni, informazioni molto dirette, nel gruppo c’è anche Noemi Di Segni. E così prendi questo vizio delle chat, apri le chat in ogni momento perchè vuoi vedere, vuoi sapere. Ma adesso mi sto staccando anche dalle chat, e allora penso che io devo andare avanti, e per me andare avanti significa tornare ad appartenere al mio mondo. Allora vengo qua. E vedo la gente che viene a teatro, che vede gli spettacoli. Noi non ci fermiamo. Organizziamo incontri, dibattiti, aperti a tutti. Uno mi ha scritto, ci crede? Mi ha detto che nonostante fosse un frequentatore del teatro da tanto tempo, avrebbe disdetto l’abbonamento. Bene, gli ho risposto – perché io rispondo anche – e gli ho detto che mi dispiaceva, ma che per fortuna lui era uno, e il teatro continuava a essere pieno. Che senso ha disdire un abbonamento per quel che pensa la direttrice? Tra l’altro, a dirla tutta, la realtà da raccontare, rispetto a cui indignarsi molto, è semmai un’altra: qui non riusciamo più a fare una serata senza la polizia. Ragioni di sicurezza, ci dicono. Ormai siamo amici di quelli della Digos”.
Cita l’ultimo libro – bellissimo, dice – di Pierluigi Battista, “La nuova caccia all’ebreo”. “Ne parlavo anche con lui. Gli ho detto: io non voglio più raccontare l’odio contro gli ebrei, perché è come se spingessi la gente a intrupparsi con la maggioranza, e la gente adora, adora stare con la maggioranza, del resto è così protettivo… Io voglio parlare di chi nascondeva gli ebrei in soffitta. Di chi ha rischiato. Parliamo dei Giusti! Ci sarà qualcuno che la pensa diversamente anche oggi, no? C’è. Certo che c’è. Dunque parliamo di loro”. Aggiunge che i fatti non hanno mai parlato chiaro come adesso: è in corso uno scontro di civiltà. “Ci sono video di Sinwar che fucila i palestinesi sospettati di passare informazioni a Israele. Li fucila. E ben prima del 7 ottobre. Lui, peraltro, è stato curato in Israele, aveva un tumore. Andrebbe ricordato”. Eppure, ai margini del fragore, della canea e delle sue sconcezze, esiste ancora la responsabilità personale. “Esiste, eccome. Cito Rav Arbib: l’uomo è per metà colpevole e per metà meritevole. Vuol dire che la bilancia è in perfetto equilibrio. Ma vuol dire anche che ogni grammo che io metto fa pendere la bilancia di qua o di là. Così è il mondo: noi siamo una piccola cosa, ma una piccola cosa che ha la possibilità di fare dei gesti decisivi. Un gesto nel senso della giustizia, nel senso della verità, nel senso del del coraggio. Lo puoi fare? Fallo. E stai vicino a quelli che lo fanno”.
E alla fine si torna sempre al teatro. “Il Parenti è un luogo di libertà. Questo mi è stato insegnato, questo ho continuato a fare. Quando c’era Franco, questo luogo ha dato spazio a chi non ne aveva – gli anarchici, i ribelli, gente che non veniva ospitata da nessuna parte. E’ un bene della città che va messo in sicurezza”. Perché è il senso di una storia, e il senso di una vita. “Io ogni mattina non vengo a lavorare, vengo a vivere”.