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il libro

Il Risorgimento non è semplicemente dimenticato: quando viene evocato è per parlarne male

Giovanni Belardelli

All'indomani del 1861 fu lo stesso Mazzini a dare inizio a quel filone di critica che parlava di "rivoluzione tradita". Salvemini l'ha definito "un terno al lotto", mentre Gramsci rimproverava i democratici per non aver saputo ottenere l'appoggio dei contadini 

Un libro di Walter Maturi, che raccoglie le sue voci risorgimentali pubblicate negli anni Trenta nell’Enciclopedia italiana (Risorgimento, Treccani) ci riporta a un tempo in cui gli avvenimenti legati all’unificazione del paese suscitavano ancora molto interesse. Ma le cose sono da tempo cambiate e oggi l’intera vicenda risorgimentale appare cancellata dal nostro discorso pubblico, come nota Alessandro Campi nell’introduzione al volume. E forse è perfino peggio di così, nel senso che il Risorgimento non appare semplicemente dimenticato: di tanto in tanto viene evocato ma al solo fine di sottolinearne gli aspetti negativi (veri o presunti). E’ accaduto anni fa con la proposta di alcune regioni del sud di istituire una giornata di commemorazione dei meridionali morti in seguito all’unificazione e, più di recente, con la serie Netflix che ha offerto un’immagine romantica e in chiave neoborbonica del brigantaggio postunitario. E’ accaduto anche con un film di successo come “Noi credevamo” di Mario Martone, tutto incentrato sulle delusioni dei mazziniani di fronte a un’unificazione segnata dalla vittoria della monarchia.

 

In effetti, già all’indomani del 1861 fu lo stesso Mazzini – che pure all’unità nazionale aveva contribuito come pochi altri – a dare inizio a quel filone di critica del Risorgimento come rivoluzione “tradita” che avrebbe attraversato la successiva storia italiana. A volte la critica prendeva di mira il fatto che la battaglia nazionale avesse avuto successo, si sosteneva, soprattutto grazie alla fortuna: Gaetano Salvemini definì il Risorgimento “un terno al lotto”, che sul piano militare era costato “una miseria: quel che costa oggi una battaglia di mediocre importanza” (scriveva nel 1915, quando i morti si contavano a decine di migliaia). Pochi anni prima Alfredo Oriani aveva lamentato che il Risorgimento non fosse stato “opera di popolo” ma frutto dell’azione di una minoranza “aiutata da incidenze e coincidenze straniere”. Nasceva dalle pagine di Oriani l’idea che l’Italia unita soffrisse di un deficit originario di legittimità e che perciò il Risorgimento andasse completato e “raddrizzato” grazie all’inserimento delle masse. Era un’idea che – fatte le debite differenze – alimentò sia l’ideologia del fascismo sia la visione gramsciana e togliattiana della storia d’Italia. 

 

Nei primi decenni dell’Italia repubblicana la critica di Gramsci al Risorgimento – fondata sul rimprovero ai democratici per non aver saputo ottenere l’appoggio dei contadini attraverso la distribuzione della terra – si diffuse ben oltre i confini della sinistra, diventando un luogo comune e a lungo un caposaldo di quella egemonia culturale del Pci tanto spesso evocata di questi tempi. Negli stessi decenni si verificava la prevalenza, nel governo e nell’opposizione, di due partiti, la Dc e il Pci, estranei alla tradizione del Risorgimento (complessivamente votavano per loro, nel 1973, i tre quarti degli italiani). Ciò che sanciva quella sostanziale rescissione di un pezzo della memoria nazionale che dura fino a oggi.

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