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Opera

Nel teatro dei cavalieri, la favola improbabile ma bella del “Re pastore”

Alberto Mattioli

L'opera di Mozart non è esattamente una hit e vederla in teatro non è facile, quindi val bene una mossa. Specie poi per una meta, dal punto di vista operistico, non scontata come Malta e il teatro Manoel dall'acustica eccezionale

Attualmente si legge di “giovani” di quarant’anni, ma a diciannove Mozart era già Mozart (e comunque ai quaranta non ci arrivò): magari non il Mozart ottimo massimo, però capace di scrivere per il castrato Tommaso Consoli il rondò con violino obbligato “L’amerò, sarò costante” che fa sciogliere chiunque non abbia un macigno al posto del cuore. Si tratta del Re pastore, un’opera commissionata nel 1775 dal detestato arcivescovo Colloredo per celebrare la visita a Salisburgo di uno degli innumerevoli figli di Maria Teresa, Massimiliano, poi arcivescovo-principe anche lui (di Colonia, però: molto più chic). Il Re pastore non è esattamente una hit, vederlo in teatro non è facile, quindi val bene una mossa, specie poi per una meta, dal punto di vista operistico, non scontata come Malta. Qui, barocco e deliziosissimo come tutta La Valletta, c’è il teatro Manoel, da Antonio Manoel de Vilhena, sessantaseiesimo Gran maestro dell’Ordine, che lo costruì “ad honestam populi oblectationem”, per l’onesta ricreazione del popolo e si suppone anche dei cavalieri, che non potevano certo massacrare turchi full time. La sala è piccola, sui 600 posti, tutta di legno e dall’acustica eccezionale, perfetta per il Mozart ovino, prodotto da Festivals Malta in collaborazione con il ministero, Visit Malta e anche, lieta novella, l’Istituto italiano di cultura della Valletta.

 

Ora, il problema è che i versi di Metastasio sono bellissimi, musica anche da soli, ma non è che la drammaturgia del Re pastore sia proprio eccitante. C’è appunto un pastore, Aminta, tutto felice di stare con le sue pecorelle in un’Arcadia che più felix non si può. Ma Alessandro Magno, di passaggio lì, lo individua come erede del trono di Sidone. Grandi patemi perché Aminta ama riamato Elisa ma Alessandro lo fidanza invece con Tamiri, amata invece dal ministro macedone Agenore. Come sempre in Metastasio, prima del finale tutti sono fidanzati con la persona sbagliata, finché Alessandro rimette a posto le coppie scoppiate nell’happy end a maggior gloria del dispotismo illuminato, altro che Trump o Putin. Nelle mani sbagliate, per esempio di un regista tedesco, un testo del genere potrebbe avere esiti scenici terrificanti. Qui ce n’è invece uno italiano, Tommaso Franchin, che supplisce all’economia di mezzi con le idee, che costano nulla, e con l’ironia, che piace sempre. Le pecore sono delle greggi di palloncini bianchi (poi dorati quando il pastore diventa Re), Alessandro si trastulla con un palloncione-mappamondo da buon great dictator e le insegne regali vengono recapitate ad Aminta in una carriola dorata. In assenza di piume e mantelli, Franchin lavora sulla caratterizzazione dei personaggi: Aminta è un fricchettone vagamente ecologista, Elisa una punk tosta, e Alessandro un leader istrionico e piacione. Tutto molto divertente e ben realizzato.

 

Idem per la direzione di Giulio Prandi alla testa di un complesso barocco poco noto ma di ottima qualità, l’Arianna Art Ensemble. Barocchizzare Mozart è sempre pericoloso; qui viene fatto con garbo, senza farlo diventare un Vivaldi sbagliato ed evitando gli eccessi modello ba-rock. Cast dominato dal sopranista Federico Fiorio, a suo agio nei virtuosismi ma soprattutto nel sullodato rondò, che davvero sembra scritto per lui. In più, in scena è giustamente stralunato, come un Lollo diventato di colpo ministro. Ottimi anche Catherine Trottman, un’Elisa precisissima, elegantissima e un filino algida, e Nico Darmanin, che non è esattamente il baritenore che ci vorrebbe ma sbriga con efficienza le insidiose agilità di Alessandro, oltre a recitare benissimo. A posto anche Raffaele Giordani, timbro tenorile meraviglioso, come Agenore e, con qualche percepibile fatica, Claire Debono, Tamiri. Pubblico festante, e chi scrive un po’ commosso da questa favola improbabile ma bella di Re magnanimi, pastori grulli e Re pastori magnanimi e grulli insieme, che promettono ai sudditi grati il migliore dei mondi possibili. Et in Arcadia ego (magari).