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Di luce e sangue

Han Kang, il Nobel e la schiettezza con cui punta alla parola essenziale

Cettina Caliò

Il suo ottavo romanzo, “Non dico addio”, racconta la vicenda di uno dei massacri più terribili della storia della Corea alla fine degli anni Quaranta: “Parlare di dolore per me è parlare di umanità”

Dopo avervi perso, tutte le nostre ore sono declinate nella sera. Sera sono le nostre strade e le nostre case. In questa penombra che più non annotta né schiarisce, mangiamo, camminiamo e dormiamo”. Così scrive Han Kang, poetessa e scrittrice sudcoreana, Nobel per la letteratura, quest’anno. La consegna del premio è prevista il 10 dicembre a Stoccolma. Lungi dal pessimismo, ma giusto come dato di fatto, ci viene in mente che sera è anche la nostra vita, che ogni giorno tramonta un po’. Sono tante le cose spalancate come finestre che la lettura di questa donna, esile nell’aspetto e robusta nella pagina, ci fanno venire in mente. “Sempre più ombre si accostarono alla mia. I nostri incontri erano, come sempre, ben misera cosa”. Classe 1970, figlia di uno scrittore, la Han vive a Seul e si occupa anche di musica e arti visive, è il primo Nobel per la letteratura alla Corea. “Per la prosa intensamente poetica che si confronta con i traumi storici e che rivela la fragilità della vita umana, la consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, tra i vivi e i morti, e perché con il suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice della prosa contemporanea”. Così si è espressa l’Accademia svedese. 

 

“Tu prendevi un pasticcino all’olio e miele con un sorriso complice, e tua nonna ti sorrideva, gli occhi che si riducevano a due fessure”. La Han ha cominciato scrivendo poesia. E ci rallegra e ci lusinga sapere (perché è un pensiero che condividiamo e ripetiamo spesso) che ritiene la poesia qualcosa che prima di tutto va vissuta, un’esperienza. “Ogni volta che sentivo un’ombra allontanarsi da me, alzavo lo sguardo al cielo notturno”.

 

In Italia quest’autrice è edita da Adelphi, e tradotta dall’inglese da Milena Zemira Ciccimarra, e dal coreano da Lia Iovenitti. E’ uscito il suo ottavo romanzo, “Non dico addio”, che ha già vinto un premio in Francia. “Bisognava fermare l’avanzata del comunismo, anche a costo di uccidere tutti e trecentomila gli abitanti dell’isola”. C’è in controluce la vicenda di uno dei massacri più terribili della storia della Corea alla fine degli anni quaranta. C’è che nella vita, prima o poi, ci tocca fare i conti con i nostri incubi, e affrontare una tempesta di neve. “Parlare di dolore per me è parlare di umanità”, afferma la Han, “voglio credere che questo sia un libro sull’amore estremo”. Tutti i virgolettati sono suoi. Là dove si tenta la fuga da un’esistenza dolorosa per ragioni diverse, si prova al contempo a recuperarne una, in qualche modo meno asfissiante. La Han ci tiene a dire che l’umanità può farcela ad andare verso la luce. 

 

“Né alta né bassa, capelli a caschetto né lunghi né corti, … E quel suo modo di camminare, né veloce né lento, a passi né grandi né piccoli”. Il libro che l’ha resa nota, al di là dei suoi confini, è “La vegetariana”, testo vincitore nel 2016 del Man Booker International Prize – la Han vince sempre, a quanto pare – diventato anche un film sudcoreano. Fra le pagine una donna ombra che ci arriva attraverso le parole degli altri. Una donna che non ha voce se non nei suoi incubi e nel suo rifiuto per la carne, che diventa rifiuto del mondo verso l’aspirazione a un’esistenza vegetale, di solo vento, acqua e sole. “Comincia a sembrarmi tutto insolito, quasi mi fossi accostata al rovescio di qualcosa… i confini si erodono. La familiarità sfuma nell’estraneità”. 

 

Sono sempre molto carsiche e stranianti le figure cui Han Kang dà vita. “Prima di staccarti del tutto da me, mi hai baciato lentamente sulle labbra. Sulla fronte. Sulle sopracciglia. Sulle palpebre. Sembrava che a baciarmi fosse il tempo”. Figure che vivono una solitudine fatta di traumi e ferite. “Il silenzio si ammassava come neve che cancella per sempre le tracce”. Personaggi che prendono le distanze da sé attraverso la distanza dal mondo, e così vivono rinunce estreme e diventano un mezzo che mostra a noi lettori le voragini che si aprono nella quotidianità, quando la realtà s’incrina. “La vita era una schermaglia costante”.

 

Un’espressione gentile e timida, quasi schiva, una voce pacata (noi occidentali, convulsi e sommari, potremmo dire che è molto zen), Han Kang è poetica e visionaria, fisica e ammaliante nel dire. “Tu eri piena di desiderio. C’era una quiete spaventosa. Era buio”. Possiede una grazia lieve e feroce. Le sue pagine hanno la lentezza delle onde lunghe e larghe, come il mare in autunno. “Il suono del vento che si insinua graffiante tra le fessure della finestra in una notte d’inverno. Il rumore della sega che stride sul ferro, del vetro che si spacca. La tua voce”. E tuttavia, proprio perché come il mare, vanno affrontate con cautela, poiché possono travolgere. E’ capace di descrivere la morte e il massacro, e la postura di una figura silenziosa in una stanza con la stessa esattezza e la stessa spietata levità. “Come gli abissi del mare dove i corpi di tutti gli esseri viventi sono schiacciati sotto il peso della pressione”. 

 

La luce pare sempre soffusa nelle pagine di quest’autrice e tuttavia è accecante per la schiettezza con cui lei punta la parola essenziale. “Lui non sa che la pioggia scrosciava sull’ombrello mentre lei rimaneva lì in silenzio”. Il più delle volte si procede lungo le storie come per una rampa di scale, e solo da un piano all’altro ci vengono mostrate le porte che conducono alla sensibilità e alle motivazioni che muovono e agitano i personaggi. “Si apre lentamente e in quella direzione si fa un po’ più chiaro. Poi, quando sente lo scatto della porta che si richiude, diventa di nuovo scuro. Qualcuno si sta sfilando le scarpe. Piove molto fitto, ma dalla finestra entra più luce, così riesce a indovinare la sagoma scura di una persona”. La Han non ci rivela sempre tutto, ci lascia la possibilità di interpretare il non detto, l’intravisto, ci consente di riflettere su questioni che sono struttura portante del nostro essere, cose come la libertà personale, la violenza visibile e invisibile della società che noi mettiamo in piedi, che noi facciamo così com’è. “La cosa che più mi fa male, ancor più del rimorso o del rimpianto, è il tuo viso”. Ci fa riflettere sui limiti del nostro corpo e della nostra mente. “E dubito che rifiorirò in questo mondo”. Nella narrazione procede alternando la prospettiva, cambia l’io narrante, e questo le permette di esplorare a tutto tondo la psicologia del singolo e della collettività, e di mostrare a noi un universo intero. “Ed ecco il suo corpo nudo, totalmente esposto al sole di primavera. Era passato veramente tanto tempo”.

 

Nel romanzo “L’ora di greco”, seguiamo l’instaurarsi di un rapporto tra una donna – “né giovane né particolarmente bella… La schiena e le spalle sono così curve in avanti che pare voglia sparire dal mondo e rifugiarsi nei suoi vestiti neri” – che perde la parola. Una donna in una “tenuta da veglia funebre, il viso è magro e tirato, come i lineamenti allungati di certe sculture d’argilla” – e un anziano insegnante di greco, quasi cieco, amante di Borges, “all’epoca non c’era ancora una spada tra me e il mondo e mi bastava così”. I due personaggi hanno in comune l’amore per la parola, “la promessa meravigliosa racchiusa nella fragile combinazione dei fonemi”. Entrambi sono consapevoli della bellezza e dell’insidia che si annida dentro ai suoni. “Qualcosa ci sta guardando in questo momento”. E’ un percorso di parole perdute e ritrovate, attraverso la lingua di Platone, “non si era mai imbattuta in una lingua con regole così complicate… ma è proprio grazie a regole così elaborate e minuziose che le frasi, invece, risultano chiare e semplici”. Ci ritroviamo pertanto a considerare il valore della parola, dei mondi che sa contenere, e oggi più che mai forse dovremmo riflettere su questo dato, oggi che le parole vengono mozzate nel tentativo di non ferire le troppe sensibilità che ci circondano, in una inclusione che finisce per escludere. “Aveva senso dell’umorismo e un bel sorriso aperto, ma la sua risata era così discreta che quasi non si sentiva”. Il percorso della protagonista ci fa ricordare anche l’importanza del silenzio (e pure questo oggi non se la passa benissimo), che conduce all’ascolto reciproco, una cosa, quest’ultima, che purtroppo non siamo capaci di mettere in pratica, e che finisce per diventare una lacuna che spalanca abissi di incomprensione, di violenza e di solitudine. “Verrò da te. E allora, all’improvviso, tutto divenne chiaro”. 

 

La Han ci costringe continuamente a prendere atto della distanza che c’è fra noi e gli altri e del bisogno di un luogo di incontro. “Se ci fosse stato concesso un po’ più di tempo, saremmo forse giunti, alla fine, a un momento di comprensione. Avremmo trovato un modo per scambiare qualche parola, o qualche pensiero”. Bisognerebbe fare lo sforzo di trovarlo quel luogo di incontro, perché poi tutto “si cancella senza lasciare traccia, sepolto sotto l’enorme massa opaca del tempo”. Del 2016 è il testo “Convalescenza”, diviso in due parti, in cui si affronta la perdita attraverso una serie di riflessioni, memorie e frammenti biografici. “Dicono che presto guarirà. E’ solo questione di tempo. Tutti guariscono”. Nella seconda parte c’è un anticipo di personaggi che rivedremo. Si tratta di una convalescenza simbolica in cui da una parte si cerca di venire a patti con il più antico dei dolori, e dall’altra si tenta la fuga da un’esistenza tossica, mutando forma. “Neanch’io riuscivo a guardare avanti. Non ne sono mai stata capace. Cercavo solo di tenere duro. Mi sforzavo di tenere duro, altrimenti mi sentivo in ansia”. Fra queste pagine ricorre spesso il bianco, una garza, un fiore, una piuma… è forse uno dei mezzi che l’autrice usa per esplorare la perdita. “Quella luce tiepida e dolciastra si riversava sul retro della mia canottiera bianca”. Il bianco talora è quel vuoto indicibile che risucchia. E’ un percorso in mezzo ai lividi che anziché sparire si fanno più grandi. “Le giornate stanno diventando più fredde… il ricordo del tuo profumo non è più così nitido”.

 

Su uno dei temi della Han, il rapporto fra sorelle, che passa in “Convalescenza”, l’attrice e regista Daria Deflorian – insieme a Giulia Scotti – ha ideato un progetto teatrale dal titolo “Elogio della vita a rovescio”. Nel romanzo “Atti umani”, premio Malaparte 2017, c’è il recupero della memoria del massacro di Gwangju del 1980. Diciamo spesso, forse per abitudine, che il passato ci serve per capire il presente, per orizzontarci, e forse dovremmo considerarlo più spesso. “I nostri corpi furono accatastati uno sopra l’altro a forma di croce. Il corpo di un uomo che non conosco venne gettato di traverso sulla mia pancia”. Qui l’autrice dà voce ai vivi e ai morti, uccisi per essersi levati contro la dittatura, racconta il coraggio attraverso la sofferenza degli uomini, capaci di tutto il meglio e di tutto il peggio. “La morte mi aveva schivata così. Come un asteroide in rotta di collisione con la Terra che alla fine, per un lieve scarto di traiettoria, la sfiora appena. A una velocità furiosa, senza esitazione né rimorsi”. Duole dirlo, ma quando ci sono di mezzo i massacri, si risulta sempre molto attuali. “Com’era strano vedere i miei occhi chiusi in quella faccia esangue”. Attraverso l’umana storia di tante vite minuscole (le nostre), la Han fa luce nell’abisso della fragilità che ci tiene in piedi. “Se potessi nascondermi nei sogni. O forse nei ricordi”. Leggendo questo testo ci si sente morti fra morti, e solo dopo si ringrazia per essere vivi, nonostante.

 

“Il rumore della pioggia si insinua attraverso la finestra chiusa, forte come se volesse crepare e sfondare strade e palazzi. Qualcuno scende le scale trascinando i piedi. Poi si sente di nuovo una porta che sbatte da qualche parte”. La cifra della Han, tra le altre cose, sta nell’ampiezza dell’istanza che riesce ad abbracciare con le sue storie. Nelle sue pagine la vicenda personale è sempre universale, “uso me stessa come ponte tra il libro e i lettori”, il tu – che usa benissimo – è sempre un noi, luminoso e oscuro. “La stupidità ha distrutto quella stagione della mia vita”. Non siamo mai solo noi stessi, perché quello che facciamo o non facciamo, inevitabilmente influenza che ci sta intorno. E lei, attraverso un vivido affresco di tante realtà diverse, ci consente un confronto, quindi, manco a dirlo, una preziosa occasione di crescita. E questa cosa qui si potrebbe definire grandezza. “Dove una luce che pare impregnata di ghiaccio si riversa all’interno dalle vetrate in varie gradazioni di blu. Dove un Cristo in croce apparentemente libero da ogni sofferenza volge verso l’alto uno sguardo innocente e gli angeli incedono leggeri nell’aria, come se fossero usciti a fare due passi”.

 

Han Kang (abbiamo saputo che legge Giorgio Bassani, lo giudica affascinante e sincero) è un’autrice sobria nell’estensione dell’infinito. “Che faremo se verrà a diluviare?”. Si interroga sulla dignità dell’uomo e crede sia ancora possibile recuperarla. “Provai solo nostalgia. Per il dorso della tua mano, che non era più accanto a me”. E’ una che ritiene la letteratura un’occasione di ricerca della verità. “C’è davvero qualcun altro, qui con me?”.

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