Psicopatologia del consenso

La scorciatoia di dichiarare pazzi i dittatori e il non detto su chi li sostiene. Da Stalin a Trump

Siegmund Ginzberg

L’eroe solitario, il prescelto, contro tutti. “I alone can fix this”, solo io posso sistemare tutto questo, è uno degli slogan preferiti di The Donald

Il dittatore era estremamente sospettoso. Era vendicativo. Pretendeva lealtà assoluta dalla sua cerchia. Non tollerava critiche o consigli. Non concepiva poteri che controbilanciassero il suo. Eppure era stato geniale nel coalizzare consenso, coalizione di popolo, tessere alleanze contro gli avversari politici. Specie quelli interni. Se ci fossero state elezioni, elezioni vere, regolari e democratiche, avrebbe vinto a man bassa. 


Il dittatore era però anche vanitoso. Venuto a sapere che uno scienziato aveva inventato un apparecchio col quale si poteva osservare l’attività cerebrale e ottenere con accuratezza una stima dell’intelligenza, gli venne la bizzarra idea di convocarlo segretamente a Palazzo e di farsi analizzare. Non si poteva barare: il dittatore se ne sarebbe accorto. Al dittatore non si poteva dire di no. Il professore accettò, sia pure controvoglia. Poco dopo la diagnosi, il grande psicologo morì a causa di un misterioso avvelenamento.


Sospettate che qui si parli di Trump? Del Trump autoritario, vanitoso, vendicativo, che si prende tutto? Che porta al governo solo fedelissimi più realisti del re e – il dio della democrazia americana non voglia – minaccia di azzerare i contropoteri? E invece no. O non proprio. Qui si parla di Stalin. Galeotto un libro che Luciano Mecacci, psicologo, storico, gran conoscitore del russo, ha appena pubblicato per la veneziana Palingenia. E’ una delizia. Si intitola Lo psicologo nel Palazzo. Sottotitolo: Il caso Bechterev-Stalin. Il saggio è preceduto da un racconto degli anni Trenta di Lion Feuchtwanger, intitolato Storia del dottor Bl., fisiologo del cervello. E si conclude con il testo integrale della lunga intervista che Stalin aveva concesso a Feuchtwanger al Cremlino durante la visita in Unione sovietica del celebre scrittore antifascista.

 
Il racconto era stato pubblicato per la prima volta nel Berliner Tageblatt dell’11 gennaio 1931. L’intervista aveva avuto luogo al Cremlino l’8 gennaio 1937. E’ l’anno dei grandi processi di Mosca contro “il blocco dei destri e dei trotskisti”. Su quel suo viaggio in Russia Feuchtwanger, già esule dalla Germania nazista, aveva pubblicato un libro, Mosca 1937, bersagliato di polemiche da molti intellettuali europei, anche di sinistra, per il modo acritico con cui si era bevuta la favola delle confessioni spontanee degli imputati e quella di una “Mosca felice”. Capita ai grandi scrittori. L’aveva indovinata, sul clima politico di terrore, nel 1931. Si era fatto infinocchiare, o aveva dovuto fingere di farsi infinocchiare nel 1937.

  
L’intervista è un documento unico nel suo genere. Non è un’intervista in ginocchio, come si suole dire. Feuchtwanger incalza Stalin anche sul culto della personalità. “Alcune manifestazioni di rispetto e amore per lei mi sembrano esagerate e di cattivo gusto… Non le pesano?”, gli chiede. E Stalin: “Sono del tutto d’accordo con lei. E’ spiacevole quando esagerano in maniera iperbolica. La gente va in estasi per delle sciocchezze. […] Nove su dieci [dei messaggi che ricevo] sono davvero di cattivo gusto. E m’infastidiscono”. L’intervistatore insiste: “Non potrebbe far cessare queste manifestazioni di entusiasmo che mettono in imbarazzo i suoi amici all’estero?”. E Stalin: “Ho provato a farlo più di una volta. Ma non si ottiene nulla. Si dice loro che non è bello, che non va bene. La gente pensa che io lo dica per falsa modestia […]”. 


Il clou della lunghissima intervista tocca i processi che si stanno svolgendo a Mosca. Feuchtwanger gli dice che in occidente c’è chi non comprende la psicologia degli imputati, si chiede perché non si difendano. Chiede a Stalin se oltre alle confessioni ci siano anche prove oggettive. Perché oltre alle confessioni non vengono pubblicati anche i risultati dell’istruttoria? Com’è possibile che vecchi rivoluzionari bolscevichi ammettano senza discolparsi di essere agenti di Hitler e dei giapponesi? Dopo un tirata sul valore giuridico superiore delle confessioni rispetto ad altre prove, Stalin risponde che erano convinti che l’Urss sarebbe stata sconfitta dal fascismo, e quindi si preparavano a subentrare al potere in una Russia ridimensionata, concedendo ai vincitori l’Ucraina e l’estremo oriente. “Questi non sono criminali comuni. E’ rimasta loro un po’ di coscienza […]”. “Sono stanchi, hanno perso fiducia nella legittimità delle loro posizioni…”. Di fronte all’assurdità delle risposte anche l’intervistatore è stanco. Poi, tornato nell’esilio in Francia, farà anche di peggio. Fingerà di essersi bevute queste spiegazioni.


Vladimir Mihajlovic Bechterev, quello vero, non quello romanzato, era a fine degli anni 20 uno dei neuropsicologi più famosi e attivi in Russia. Era stimato e coccolato dal nuovo regime bolscevico. Anche da Lenin, e poi da Stalin. Era autore di innumerevoli saggi. Accanto agli scritti sull’anatomia e la fisiologia del sistema nervoso (nucleo di Betcherev, malattia di Betcherev, riflesso di Betcherev sono termini che ricorrono tuttora nei trattati di medicina), si era spinto ad analizzare e collegare tra loro i meccanismi (eccitazione, inibizione, e così via) che muoverebbero i gruppi sociali, la lotta di classe, le rivoluzioni. Forse c’era chi pensava di poter utilizzare le sue teorie al controllo della mente collettiva. Qualcuno invitava alla cautela. “Può essere utilizzato con grandi benefici, ma non ci si deve lasciare infatuare. Una certa vena di avventurismo e di leggera ciarlataneria, nonostante la sua fama europea, è presente anche nei suoi lavori scientifici, secondo il parere di ricercatori seri”, si legge ad esempio in una nota riservata del commissario del popolo per l’Istruzione, Anatolij Vasil’evic Lunacarskij. 


Nel dicembre 1927, Betcherev si era spostato, da Leningrado dove risiedeva, a Mosca, per partecipare al primo convegno dei neuropatologi e psichiatri. Il 22 dicembre tiene, in veste di presidente onorario, una relazione sull’impiego dell’ipnosi per la cura delle tossicodipendenze, in particolare dall’alcolismo, e di varie forme di nevrosi. Il 23 dicembre al mattino viene convocato al Cremlino, dove si apparta con Stalin per circa tre ore. Nel pomeriggio arriva in ritardo al convegno. Si giustifica del ritardo, con diversi colleghi, dicendo di aver dovuto visitare “un paranoico dal braccio atrofizzato”. Tutti sanno che Stalin ha un braccio atrofizzato, che evita di mostrare pubblicamente. Alla sera va a teatro con la moglie. Poco dopo si sente male. Vomita. Il giorno dopo muore. Il decesso viene attribuito, dai medici accorsi al suo capezzale, a “cibo guasto”. 


Nel libro di Mecacci il “giallo”, degno di uno dei molti romanzi di veneficio di Agatha Christie, viene analizzato, anatomizzato, sottoposto ad autopsia con ricorso meticoloso alle molte testimonianze dell’epoca e successive. La stragrande maggioranza dà per scontato che Bechterev sia stato assassinato su ordine di Stalin. Per tutte, quella del compositore Dmitri Shostakovich: “Dicono che Bechterev, grande psichiatra e buon amico di un nostro amico di famiglia, il dottor Grekov, un chirurgo, abbia osato diagnosticare Stalin come un pazzo. All’epoca Bechterev era sulla settantina, e famoso in tutto il mondo. Era stato convocato al Cremlino, dove controllò con attenzione le condizioni mentali di Stalin. Morì poco dopo, e Grekov era certo che Bechterev fosse stato avvelenato”, racconta. Lo fa ovviamente quando Stalin era già morto. Shostakovich non era mica pazzo. E comunque aggiunge subito dopo aver tirato il sasso: “Ma questa non è che una delle tante orribile barzellette sui manicomi e i loro inquilini. Il pazzo avvelena il suo medico”.


C’è un argomento, come dire, psichiatrico anche nella denuncia dei crimini di Stalin fatta da Kruscev al XX Congresso nel 1956: “Stalin era un uomo molto sospettoso, con una diffidenza morbosa. Ce ne siamo convinti lavorando con lui. Poteva guardare una persona e dirle: ‘Perché oggi i tuoi occhi sono così sfuggenti?’; oppure: ‘Perché oggi ti agiti tanto ed eviti di guardarmi direttamente negli occhi?’. Questa sospettosità morbosa lo portò a diffidare dell’universo mondo, e anche di personalità di spicco del Partito che conosceva da anni. Ovunque e in tutto vedeva ‘nemici’, ‘doppiogiochisti’ e ‘spie’”. 


Paranoico Stalin? Pazzo Hitler? Pazzo Mussolini? Narcisista il padre della Repubblica turca, Mustafa Kemal Atatürk, come sostennero in un saggio di diversi anni fa, The Immortal Atatürk: A Psychobiography, Vamik Volkan e Norman Itzkowitz? Le interpretazioni psicoanalitiche della storia e dei personaggi storici lasciano il tempo che trovano. Pazzo Putin? Pazzo Netanyahu? Pazzi Yahya Sinwar e Hassan Nasrallah, che gli hanno dato l’occasione di fare una guerra di sterminio di Hamas e di Hezbollah, senza troppe distinzioni tra combattenti, militanti, simpatizzanti, adulti e bambini? Non è un bel gioco. Può essere un modo troppo comodo di cavarsela, di aggirare il problema, evitare di affrontarlo al cuore. Se sono tutti pazzi, allora nessuno è pazzo. 


Il dittatore, il capo carismatico, è per definizione autoritario, spietato, cinico. E’ intimamente convinto di essere il “salvatore”, l’uomo della Provvidenza a capo del proprio paese, del proprio partito o del proprio gruppo militante. Non tollera la minima concorrenza, fosse anche in nome degli stessi obiettivi dichiarati, degli stessi ideali, in seno allo stesso gruppo dirigente di cui è a capo. Non tollera critiche. Si ritiene assolutamente indispensabile. Si immedesima nel ruolo di eletto dal popolo, di prescelto dalla Storia, o dal Signore. Accetta volentieri, promuove, anzi si crogiola nel culto della personalità. Fa parte delle norme di comportamento, delle regole di ingaggio verrebbe da dire. 


Il dittatore è molto popolare (fino a quando cade, o muore). Mao era assolutamente, sinceramente, amato, anzi idolatrato dalle “masse” che venivano mobilitate a suo nome. Eliminò uno dopo l’altro i capi delle diverse armate che avevano sconfitto Chiang Kai-shek. Perseguitò e fece fuori tutti gli altri massimi esponenti del Partito comunista che gli facevano ombra. O sospettava aspirassero a succedergli, compresi quelli che, come Lin Piao, aveva lui stesso designato successore. Aveva imparato molto da Stalin. C’è chi ritiene che ancora di più aveva imparato dagli antichi imperatori, a cominciare da Qin Shihuangdi, il primo despota che aveva unificato la Cina.  


Donald Trump ha il suo momento di massima gloria e popolarità. Non è detto faccia bene al suo equilibrio psichico. E’ sempre stato pieno di sé, megalomane, patologicamente sospettoso degli avversari politici, ma anche degli avversari nel proprio Partito repubblicano. Ha vinto anche queste elezioni denunciando a tutt’andare complotti, cospirazioni, brogli elettorali rivelatisi inesistenti, colpi bassi, manovre sporche. Attribuisce agli avversari di aver ordito a suo danno tentativi di assassinio giudiziario, morale, politico, e infine anche fisico. Lui, l’eroe solitario, il prescelto, contro tutti.


I alone can fix this, solo io posso sistemare tutto questo, è uno dei suoi slogan preferiti. Trump ritiene di avere il mandato per governare da solo. Non ammette contrappesi. C’è chi teme voglia erodere o addirittura eliminare i checks and balances previsti dalla Costituzione. L’ha già fatto con le nomine alla Corte suprema nel corso del suo primo mandato. Il prossimo bersaglio potrebbe essere l’indipendenza della Federal Reserve. Ora ha anche la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Si prospetta una leadership personale, individuale. Non si prospetta per nulla una leadership collettiva, men che meno una leadership bipartisan, o di riconciliazione nazionale. 


La notte in cui si delineava la sua vittoria, Trump aveva invero dichiarato che era venuto “il tempo di unire” e di “metterci alle spalle le divisioni”. Ma è durato solo un attimo. Con l’emergere delle dimensioni del successo, i buoni propositi sono svaniti. Nella sua nuova amministrazione non c’è posto per chi possa trattenerlo per la manica. Come segretario di stato ha scelto Marco Rubio, più falco di lui verso Cina e Iran, e come consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Waltz, un ex militare che vorrebbe far la guerra agli immigrati clandestini. Il criterio di scelta è però un altro. “E’ la fedeltà (fealty). Lui vuole attorno solo yesmen e yeswomen, che gli dicano sempre sì”, avverte John Bolton, un falco dei falchi che fu già consigliere per la Sicurezza di Trump.


Guai invece a chi dei suoi lo ha “tradito”, si è messo di traverso, o non si è dimostrato abbastanza fedele o leale.  Chi vorrebbe essere nei panni dei repubblicani “infedeli”, dei tredici suoi ex strettissimi collaboratori che si erano dimessi o lui aveva licenziato perché “non abbastanza leali” e, alla vigilia delle presidenziali, avevano firmato un appello a non votarlo perché “sono stati testimoni, di persona e da vicino di che cosa è capace” nel suo “desiderio di potere assoluto e incontrollato”? Per non dire del suo ex capo di gabinetto, il generale dei marines John Kelly, che l’ha accusato addirittura di essere fascista, un ammiratore di Hitler, e ha detto che, se rieletto, Trump governerebbe da dittatore. 


Non succedeva da 20 anni che un candidato repubblicano prendesse la maggioranza del voto popolare, oltre che quella dei collegi elettorali. O che, per essere più precisi, i democratici la perdessero. L’ultima volta era successo nel duello Bush-Kerry, nel 2004. Trump può farsi forte dell’argomento che hanno votato per lui in persona, non per il suo partito. Compresi molti neri, ispanici, immigrati di più vecchia data, persino abitanti di quartieri come il Bronx nella democraticissima e multietnica New York, i giovani, e anche la maggioranza delle donne. Insomma molti degli elettori che la sua avversaria Kamala Harris, nera e donna, pensava dovessero votare “naturalmente” democratico. 


L’America resta la Mecca della psicoanalisi. Va da sé che in questi anni frotte di psicoanalisti hanno cercato di dare un senso alla psicologia di Trump. E a quella dei suoi sostenitori. Gli hanno diagnosticato narcisismo, misoginia, crudeltà, sadismo, rabbia incontrollata, ansia da prestazione o da temuta contaminazione. Una delle due: o si dovrà estendere la diagnosi ai 75 milioni di americani che l’hanno votato, oppure saranno i democratici a dover far meglio l’analisi dei motivi psicologici per cui non sono stati votati da chi avrebbe dovuto dargli “naturalmente” il consenso. 


Stalin sarà stato anche paranoico. Ma non era affatto stupido. In fatto di psicologia collettiva del suo popolo l’aveva azzeccata meglio dei suoi rivali e avversari. Idem, mutatis mutandis, per Trump.

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