In ogni riga di Lucia Berlin la gioia di essere al mondo anche se fa schifo

Marco Archetti

Una grande scrittrice da riscoprire. In libreria “Una nuova vita”, piena di vita, di fuga delle cose, di sguardi e stanchezza, di uomini di merda e di uomini belli, di intemperanza, aborti cugine, di tempo agli sgoccioli, di verità

"E se uno cominciasse dalla fine? E se, anziché darsi alla lettura sistematica e ordinale cui ci si affida quando si scopre un nuovo autore, si buttasse spavaldamente sull’ultima uscita editoriale, una raccolta che non è una raccolta e che si potrebbe definire, senza che l’espressione ne qualifichi negativamente il contenuto, il “fondo del baule”? "Una nuova vita – racconti, saggi, diari" (Bollati Boringhieri, 254 pagg.,  17 euro) è un libro che riunisce quel che non era ancora stato pubblicato da Lucia Berlin, scrittrice di cui ci siamo accorti tardi. Verrebbe da chiedersi: ma mentre si celebravano autori di cui non è rimasta traccia, mentre i turiboli dondolavano intorno a scrivani poi ridimensionati dal tempo e ormai sbiaditi e squisitamente calligrafici, mentre si intonavano canti gregoriani per autori all’epoca molto di moda dunque portatori delle premesse della propria stessa caducità, Lucia Berlin, la vivissima (non solo vivente) Lucia Berlin, scriveva? E perché in pochissimi si accorsero di lei?

   

Saul Bellow la pubblicò su The Noble savage e alcuni suoi racconti comparvero su Atlantic Monthly, ma per questa scrittrice che aveva poco tempo per le feste, i salotti, i milieu straparlanti, ottenere attenzione fu difficilissimo. Ci si è messa la vita, anche.

 

Nata nel 1936 in Alaska da un ingegnere minerario e una donna fragile e alcolizzata, la sua biografia è una foto mossa: infanzia nel West, adolescenza in Cile, poi New Messico e Messico, tre matrimoni, quattro figli tirati su da sola, trentatré traslochi ("Welcome Home" li racconta tutti, uno per uno), guai con la schiena, un busto maledetto, l’alcolismo (dal racconto La fossa: “Nel delirium tremens le allucinazioni sono una benedizione”).

 

Insomma, Lucia Berlin non ha mai avuto una stanza tutta per sé. Si è dovuta accontentare del tavolo della cucina. E sempre dopo che i figli erano andati a letto, quando poteva prendere la bottiglia di bourbon e la penna, dopo un turno da donna delle pulizie sottopagata o assistente per un gruppo di chirurghi. “L’ultimo di una lunga serie di impieghi senza prospettive che aveva svolto negli ultimi vent’anni”, scrive il figlio Jeff nella prefazione del libro alludendo al 1993, anno in cui lesse un racconto della madre e non capì che la protagonista, che sognava una fuga e alla fine sì, fuggiva, ma in un modo secondo lui piuttosto convenzionale, incarnava i desideri di Lucia di quel momento: un’altra vita, perché anche una vita qualsiasi era più auspicabile di quella.

   

Una nuova vita raccoglie esperimenti e racconti giovanili, più alcuni saggi e un autentico capolavoro di intuizioni narrative spiegate benissimo, intitolato “Il mio blocco dello scrittore”, vero manuale a uso di aspirante su come si costruisce un racconto raccontando d’altro, a partire da una corrida in un’arena e dando corpo a un gruppo di personaggi (una copia di giapponesi, una vedova in lutto, una guida turistica) sapendo bene che quel racconto “parla della morte coraggiosa e bellissima di mia sorella” – sorella malata di cancro, di cui Lucia si occuperà fino all’ultimo, e di cui nel racconto non c’è traccia.

   

E poi pagine di diario su un viaggio a Parigi in età avanzata (“La Francia: tutti parlano con trasporto. Dio, che paese di oratori e di opinioni”), sulla vecchiaia che arriva, i bar all’aperto, lo strazio indicibile di essere spettatrice e di non poter più contare sulla propria avvenenza mentre i demoni ti fanno visita (non mancano nemmeno le cattive letture: “Belli e dannati di Fitzgerald”, scrive Berlin, “che brutto libro imbarazzante”). E l’ansia perenne per i soldi, la rapinosa felicità di buttarli all’improvviso.

 

Lucia Berlin è viva anche da morta. E la sua pagina è senziente: in ogni riga ci sono la vita, la fuga delle cose, la vita che va, gli sguardi, la stanchezza, gli uomini di merda e gli uomini belli, l’intemperanza, gli aborti e le cugine, il tempo agli sgoccioli, la verità (“mamma odiava la parola amore, la pronunciava come di solito si dice troia”), la pura gioia di essere al mondo anche se fa schifo. 

   

Lucia Berlin non sapeva nemmeno come si pronunciasse il suo nome. Scriveva: “Lusìa? Lùscia? Come in Dostoevskij: a volte sono Dmitri, a volte Misha”.
 

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