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L'umanesimo messo alle strette dalle macchine e da un'altra idea di natura

Alfonso Berardinelli

Giulio Ferroni racconta di una nuova cecità che vorrebbe conciliare senza problemi lo sviluppo economico-tecnico con la difesa della natura terrestre. In un libro con cui sarebbe bene concludere l'anno che sta per finire e inaugurare quello che comincerà, carico di incognite

Su umanesimo e natura, storia culturale e crisi ambientale, è bene che prenda la parola anche qualche critico letterario. Ho sempre pensato che non si può essere critici letterari (e non solo studiosi) se non si è anche critici della cultura e della società. La letteratura non è infatti una disciplina specializzata e un ambito accademico; è un modo insostituibile di vedere e affrontare tutte le esperienze umane nella loro estrema varietà e nel loro insieme: la pace e la guerra, l’amore e l’odio, la passione e l’indifferenza, la ragione e l’immaginazione, la solitudine più desolata e l’eccesso di socialità.


A questo mi fa pensare l’ultimo libro di un critico e storico della letteratura come Giulio Ferroni, "Natura vicina e lontana. Umanesimo e ambiente dagli antichi greci all’intelligenza artificiale" (La nave di Teseo, pp. 343, euro 23). E’ un libro leggendo il quale sarebbe bene concludere l’anno che sta per finire e inaugurare quello che fra poco comincerà. Per fronteggiare riflessivamente il nostro attuale presente storico e il prossimo, incombente futuro carico di incognite, il fatto di partire dalla letteratura antica e moderna aiuta a non cadere nelle diverse trappole ideologiche che oggi insidiano le argomentazioni parafilosofiche e scientistiche, portate troppo spesso a specializzare la razionalità logica, o pragmatica e utilitaristica, separandole dalla conoscenza come esperienza, espressione e rappresentazione dell’umano.


Il libro di Ferroni è un impegnato, appassionato e appassionante pamphlet enciclopedico che mette a fuoco il problema dei problemi con cui confusamente, astrattamente e contraddittoriamente abbiamo a che fare: il rapporto cioè fra la grande tradizione culturale e le attuali abitudini sociali, economia, tecnologie, vita mentale quotidiana. Per fare questo non si può evitare l’idea di umanesimo che in vario modo ha accompagnato tutta la storia sia dell’Occidente che dell’Oriente, in Siddharta e Socrate, Gandhi e Kafka. Lo impongono le straordinarie accelerazioni che negli ultimi anni e decenni hanno investito il nostro modo di vivere e di pensare, di comunicare, agire e fare esperienze. La stessa centralità dell’umano è oggi messa in discussione e in dubbio. Sia nel senso che un secolare e millenario antropocentrismo ha ostacolato la nostra coscienza ambientale e la visione del rapporto cultura-natura. Sia nel senso che l’enorme, smisurato sviluppo tecnologico è penetrato in profondità, capillarmente e ininterrottamente nella nostra vita fisica, psichica e mentale, nell’organizzazione sociale e politica, come nel nostro rapporto sia con il futuro che con tutto il passato, arti, scienze, filosofie, etica e religione.


La disumanizzazione o de-umanizzazione dell’umano per via di invasione e colonizzazione tecnologica sta velocemente cambiando l’idea di noi stessi, degli altri e del mondo in cui viviamo. Le più elementari nozioni e percezioni dello spazio, del tempo e dei rapporti di causa ed effetto, che le macchine di ogni tipo stanno mutando o cancellando, provocano una vera e propria distruzione di ciò che ancora chiamiamo realtà. Così, anche la valutazione e il giudizio dei vantaggi e dei danni dovuti all’invasione tecnologica nella vita umana in tutti i suoi aspetti, si indeboliscono e si offuscano. La nuova socialità creata dai “social media”, che modellano forme e contenuti della comunicazione interumana, diffonde per mimetismo un preordinato, presunto “dovere” di accettare e di adeguarsi al nuovo solo perché nuovo, per definizione necessario, utile, inevitabile, più “comodo e veloce”, ecc. Ma questo implica anche l’incapacità di vedere e calcolare gli effetti che il nostro modo di vivere ha e avrà sulla natura e gli equilibri fisico-chimici del pianeta. E’ nata una nuova cecità: quella che crede di poter conciliare “senza problemi” l’attuale sviluppo economico-tecnico con la difesa della natura terrestre, cioè l’ambiente che rende possibile la vita del genere umano fra i due poli e l’equatore, cielo e terra, aria e acqua, calore e gelo.


Il libro di Ferroni è nato dalla consapevolezza che il nostro umanesimo, elaborato nel corso di secoli, se non di millenni, ha oggi bisogno di essere rivisitato e riformulato come un “umanesimo ambientale” di cui ormai non possiamo fare a meno. La ricognizione di Ferroni parte dagli studia humanitatis, dall’umanesimo tradizionale, fra antropocentrismo e limiti dell’umano, a partire dalla cultura classica greco-latina a Medioevo, Rinascimento, Illuminismo e Modernità otto-novecentesca. Molte le pagine ammirevoli: fra tutte quelle su Leonardo e Machiavelli, Bruno e Montaigne, Leopardi, Baudelaire e Nietzsche, Horkheimer e Adorno, Anders e Jonas. Infine, con le cento pagine su “assoluto digitale” e intelligenza artificiale, viene molto utilmente esaminata la recente bibliografia critica internazionale fino agli apologeti più discutibili come Luciano Floridi, più o meno un pubblicitario filosofico secondo cui, dice Ferroni, l’AI è nel futuro “un orizzonte assoluto della vita umana”, il cui “rilievo totalizzante” non lascia, non deve né può lasciare spazio a domande, dubbi e libere scelte in contrario.


A questo punto la critica umanisticamente fondata di Ferroni si fa netta. A chi parla di elaborare una specifica, ineluttabile “Ethics of Artificial Intelligence”, Ferroni replica che “l’etica in quanto tale è molto più di una disciplina filosofica: riguarda infatti tutto il nostro comportamento nei rapporti con gli altri, con lo spazio e il tempo, con l’esercizio del nostro esistere, col valore di ciò che siamo e di ciò che facciamo: è legata strettamente al nostro essere psichico e biologico”, all’interazione sociale e all’elaborazione culturale, cioè morale e conoscitiva, di ciò che pensiamo come realtà intera della nostra vita. Parlare di re-ontologizzazione e di re-ingegnerizzazione dell’umano equivale all’annuncio di una nuova creazione dei singoli esseri umani e dell’intera umanità; equivale, diciamo pure, alla sostituzione del Dio creatore con la Macchina creatrice che ci creerà di nuovo, creando poi, in modo ingegneristicamente adeguato, ogni modo precedente di vivere, di fare scienza e arte, di immaginare e conoscere, di agire, di esperire, desiderare, percepire, amare, rifiutare, giudicare e decidere. Agli apologeti e pubblicitari di un tale futuro si dovrebbe rispondere con gli ambientalisti tedeschi di una volta: “Atomkraft? Nein, danke”. Vidi queste parole scritte a Tubingen sulla torre in cui visse Holderlin negli ultimi decenni della sua vita: “Energia atomica? No, grazie”. L’intelligenza artificiale non è intelligenza, non è intelligente. Attenti a come parliamo. AI è una sinistra metafora nata nella mente desertificata di Alan Turing. Meglio Montaigne, Holderlin e Leopardi…
 

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