Intervista a Gabriele Lavia
La nuova vita di re Lear e Shakespeare che parla al mondo di oggi
Vecchi e giovani, guerra e pace, valori e disvalori. La responsabilità, le lotte di potere
Gli anziani diventati "ingombranti" e le vecchie famiglie dove convivevano in felice disaccordo. Lo "scandalo per l'umanità" della guerra Russia-Ucraina, Strehler maestro, "genio e poeta" di concretezza, il lavoro di regista e il teatro in Italia oggi, un po' "storto" come le quinte del Re Lear
Lo spettacolo è appena finito. E Re Lear-Gabriele Lavia, alla fine del suo lungo viaggio nella tempesta interiore ed esteriore, ha appena solcato il palco con la figlia Cordelia morta in braccio, elevando verso il pubblico il grido della chiamata in causa, oltre la quarta parete invisibile tra scena e sala: “Siete uomini o pietre?”, grida Lear. Siamo tutti responsabili, per noi stessi e per gli altri, e William Shakespeare, molti secoli dopo aver scritto, parla direttamente allo spettatore del 2024.
Il teatro Argentina si svuota. Sul palco resta una scenografia post-apocalittica, evocativa dell’incompleto: della vita, dell’arte, della pace, della guerra, del rapporto padri-figli. Viene in mente la desolazione de “La strada” di Cormac McCarthy, un altro viaggio, un altro universo mostrificato, un altro padre, un altro figlio. Dietro le quinte, intanto, nella grande pancia dell’edificio, dietro il sipario, su per le scale, prende forma lo spettacolo del dopo-spettacolo, nel momento sospeso tra soddisfazione, gioia, rilassamento, ansia da conferma, paranoia di disconferma, smania e insofferenza da perfezione, infine liberazione dalla sottile adrenalina che si rinnova ogni sera, anche dopo quarant’anni di carriera. Una liberazione che ogni attore vive nel momento in cui esce di scena, nella quiete rumorosa da fine serata, sotto il trucco colato, in mezzo ai fiori, alle strette di mano, agli amici che abbracciano, agli estimatori che si inoltrano timidi nel dedalo di scale e corridoi, in un viaggio nel tempo tra manifesti sottovetro di piéce del Novecento e sedie negli angoli, e su in alto, fino ai camerini dalle porte tutte uguali, con cartellini tutti uguali che indicano i nomi di chi ha composto il gioco d’orchestra visto poco prima: dal Maestro agli attori, dagli attori al Maestro, identici nella diversità, ognuno per sé e per portare acqua a tutti. Ed è lì, nell’attimo in cui si esce dal personaggio e si rivestono i panni di se stessi, che Lavia sospira e sorride.
Il suo Lear è antico, ma modernissimo. E interpella direttamente il mondo squassato e imprevedibile di oggi (dal palco del teatro Argentina, fino al 22 dicembre, e poi in tournée, con produzione Teatro di Roma, Effimera e LAC e con quattordici interpreti, oltre al regista e attore Lavia che torna al Lear dopo più di cinquant’anni, avendone compiuti ottantadue: nel 1972 lo dirigeva Giorgio Strehler nel ruolo di Edgar, oggi si dirige da solo nel ruolo del re che rinuncia al regno). Ma che momento è, questo, per dare di nuovo vita a Re Lear? E che cosa può dire Lear a noi che lo guardiamo oggi, nell’allestimento in cui tutto ha inizio da un teatrino per bambini in bilico sopra a un tavolo, all’interno di un teatro abbandonato dove gli attori trovano da soli i costumi di scena, tirandoli fuori da vecchi bauli, in una scena nella scena che rappresenta la condizione del teatro nel nostro paese, dice Lavia, “qualcosa di lontano e forse dimenticato”, “storto” come le quinte che si intravedono asimmetriche e come la vita, un po’ dritta e un po’ storta anche lei, per tutti.
“Sono molto vecchio”, dice Lavia sorridendo con la voce. “Diciamo che sessant’anni fa ero un fiore”, ripete, ma vedendolo per tre ore sul palco la vecchiaia pare elemento ininfluente. Questo spettacolo, racconta, lo ha disegnato tutto prima di cominciare le prove, tavola per tavola, con la matita. “Uno storyboard assoluto”. Immagini che danno forma alla tragedia di questo re nella tempesta che “ha abbandonato il suo essere”, dice. Ma perché restano tutti a bocca aperta, quando parla Lear, nella platea in cui siedono i ragazzi del liceo, i ventenni, i trentenni, i quaranta-cinquantenni e i pensionati? “Anch’io mi sono domandato perché Lear sia così attuale. E forse, mi sono risposto, è prima di tutto perché il tema della vecchiaia discriminata si impone tutti i giorni, si avverte nelle nostre vite. Non nella mia, per fortuna, che sono vecchio ma non discriminato, visto che vivo con mia moglie (l’attrice Federica Di Martino, interprete di Goneril in Re Lear, ndr) e che al massimo potrei essere discriminato da lei. Ma, in generale, gli anziani sono percepiti come ingombranti”. E’ per via della “forza del carattere” di cui parlava lo psicoanalista James Hillman nel suo libro manifesto sull’età anziana? O per la cecità di ch giovani che non hanno voglia di ascoltare chi viene vissuto come grillo parlante? “Re Lear commette un errore”, dice Lavia, “cede il potere, ma allo stesso tempo è come se volesse mantenerlo. E siccome ha dato tanto alle figlie, pretende di ricevere tutto. Ma non funziona così, anche se lui si era illuso. E quando dice, incredulo, “ma io vi ho dato tutto’, una delle figlie risponde: “Ed era ora”. Che cos’altro poteva scrivere Shakespeare? C’è già tutto, in questa frase”.
La scena, luogo universale, illumina figlie che si rivelano traditrici dell’amore paterno e anche di se stesse, ma anche figlie e figli acquisiti che si assumono la responsabilità per tutti. E chissà se oggi siamo in grado di farlo, in un mondo in cui non avanzare in questa direzione può voler dire mettersi di fatto dalla parte di chi danna e si danna per il potere. “Penso alle parole finali del personaggio Edgar, uno che se la assume, la responsabilità”, dice Lavia: “‘Noi che giovani siamo, comprenderemo e faremo tesoro degli errori del passato, ma allo stesso tempo non pretenderemo di essere eterni”. Lear invece l’ha preteso, e quella pretesa determina una perdita di senso. Ma il suo viaggio è anche incontro con la diversità e con la verità inattesa. Non a caso è il personaggio del Matto, un “fool” formidabile interpretato da Andrea Nicolini, a guidare Lear nella notte reale e metaforica in cui è precipitato, Matto che è “coscienza ironica, dalla comicità amara”, dice Lavia del personaggio più tragico nella sua leggerezza. Servirebbero matti simili, oggi? “Il matto aveva questa funzione, era l’unico a poter dire la verità al re”. Alla fine il Matto è un faro, incarna il valore e i valori perduti riportati in vita da Cornelia, l’unica figlia che ama davvero il padre, prima rinnegata e poi ritrovata. “Le figlie Goneril e Regan, e i loro mariti, bramano il potere”, dice Lavia, “ma una volta che lo hanno ottenuto non vogliono che il vecchio padre esuberante si metta in mezzo. Dal loro punto di vista può essere comprensibile: hai rinunciato? Allora fuori dalle scatole, non ci servi più. Una cosa che oggi vediamo sempre più spesso, un tempo impensabile”. Nella famiglia originaria di Lavia, in Sicilia, “non passava per l’anticamera del cervello a nessuno”, racconta il regista, “di non tenere in casa i nonni paterni e materni, consuoceri che non andavano d’accordo tra loro, al punto che mia madre era costretta a disporre i posti a tavola secondo una politica pedestre nel senso letterale della parola: i piedi lavoravano alacremente durante il pranzo e la cena, un calcetto di qua e uno di là. Era un modo di tenere a bada quella faticaccia di famiglia. Però era bellissimo”. Si era lontani dall’idea che, arrivati a un certo punto, l’orizzonte potesse essere una Rsa. “Macché. Si stava lì insieme, nella stessa casa, e oggi che sono vecchio mi piace pensare di essermi portato dietro, nel mio bagaglio interiore, tutte queste presenze. Provo una grande tenerezza se ci ripenso, e mi viene anche da sorridere quando mi salgono alla mente alcuni ricordi: una volta, per esempio, mia nonna paterna sorprese il marito mentre toccava il sedere alla cameriera. Successe il finimondo. Voleva andare via di casa, la nonna. Ma per andare dove?”. La situazione non si placò, racconta Lavia, prima della fine del processo casalingo: “Mio padre chiamò suo padre, il nonno: papà, ma che cosa hai combinato? E lui, il nonno, si difese dicendo: al cuore non si comanda. Stupendo, sembrava davvero Re Lear. E noi bambini, ovviamente, eravamo tutti dalla sua parte”. Questa dimensione si sta perdendo, si perdono idee, valori, esperienze? “Più che altro memorie. Non so se siano valori. Mi pare invece che il mondo sia andato avanti attraverso il disvalore. Mi guardo attorno e vedo vincere solo il disvalore”. Lavia fa una pausa, si indovina amarezza. “Mi pare che il disvalore eserciti una forza di attrazione enorme sull’uomo, nel mondo in generale e in piccolo nel teatro, dove oggi tutti vogliono farsi raccomandare”. E prima? “Non so, non ho mai avuto questo talento”.
C’erano altri maestri. Quando Lavia ha mosso i primi passi da attore, sulla sua strada ha trovato Giorgio Strehler. “Un genio, un poeta, il più grande regista che ha avuto questo paese e forse l’Europa e quindi il mondo”, dice: “Strehler si avvicinava al teatro con il cuore pieno di poesia. Non è che teorizzasse, non ha mai teorizzato nulla. Stava lì, appassionato. Una persona molto colta e sensibile, con un amore indicibile verso gli attori. Questo non vuol dire che li trattasse particolarmente bene, ma li trattava in un modo che assomigliava a lui: in maniera virile, ‘facciamo questo, facciamo quello’. Ecco, per lui il teatro era tutto un: ‘Facciamo, proviamo e vediamo se funziona. Se funziona lo teniamo, sennò lo buttiamo nel cesso’. Era estremamente concreto sul lavoro, Strehler. Ma aveva delle sue tenerezze, nobilissime e stupefacenti”. Al giovane Lavia che — provando e avendo magari un’intuizione sul personaggio — chiedeva “Giorgio, posso farti vedere una cosa?”, Strehler rispondeva: “Fai pure”. Ma poi aggiungeva: “Ahiaiahi, caro Gabriele, vedo addensarsi sul tuo capo la nuvola nera della regia”. La profezia di Strehler era condivisa anche dall’altro maestro di Lavia, Orazio Costa, che con gran profluvio di “r” moscia gli diceva: “Caro Gabriele, mi dispiace, ma tu farai il regista”. A profezia avverata, Lavia non farebbe altro: “Mi piace immaginare gli spettacoli, mi piace come dicevo disegnarli, mi piace avere tutto in testa a monte. A volte viene bene, a volte viene male. E stavolta credo di aver avuto, in più, una compagnia di attori affettuosi verso di me e appassionati al lavoro che stavamo facendo. C’è un clima molto bello in compagnia, c’è corrispondenza affettiva dietro le quinte e sul palco. Il teatro è un’arte collettiva, non l’arte di un demiurgo. E’ un gruppo di volenterosi che insieme cercano di fare qualcosa di buono che stia in piedi”.
Shakespeare e Lear parlano di padri e figli, ma anche di guerra e di pace. Tanto più sembrano rivolgersi oggi a un mondo dai tanti fronti aperti, dall’Ucraina al Medio Oriente. “Non solo Shakespeare continua a parlarci, ci parlano anche Eschilo, Sofocle, Euripide, Cechov, Strindberg, Ibsen. Tutti potrebbero insegnarci qualcosa; il problema è che l’uomo non vuole imparare. E, oltretutto, è abbastanza ignorante. Questo penso vedendo quello che accade oggi, davanti a pazzi da legare presi dalla smania di potere”. Non ci si immaginava, in Europa, di potersi trovare di fronte a una guerra Russia-Ucraina. “Sono sgomento. Come si può? La Russia, il popolo che ha visto camminare per le sue strade Dostoevsky, Pasternak, Cechov, mi dico, com’è possibile? Ma penso anche che la fine di questa follia sia già segnata. Credo, spero succederà qualcosa, anche all’interno della Russia, e che si possa presto uscire da quello che mi pare uno scandalo per l’umanità”.