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Il quadro

Tommaso, Bonaventura e il '68 universitario con cui incendiarono Parigi

Tommaso Ricci

Il nostro presente è sorretto e illuminato da queste due colonne della fede e del pensiero che tre quarti di millennio fa uscirono insieme dal palcoscenico del mondo. In vita i due teologi furono al centro d’un sommovimento universitario perché non potevano diventare magistri

L’ultimo dipinto dell’alfabetica lista di sventurate vittime d’arte bruciate a Berlino nel maggio 1945 nell’incendio della Flakturm Friedrichshain, dove erano state ricoverate contro la minaccia delle bombe, è una tela di Francisco de Zurbarán, il Caravaggio spagnolo, e ritrae san Bonaventura che svela al collega san Tommaso d’Aquino la fonte della propria sapienza: il Crocifisso. Un quadro pregno di risonanze, stilistiche, storiche e teologiche. Un quadro ingoiato dal demone della guerra, dall’abisso della storia. 

 

Ma la storia dei due campioni è comunque ostinatamente giunta sino a noi, il nostro presente è tuttora sorretto e illuminato da queste due poderose colonne della fede e del pensiero che tre quarti di millennio fa (1274, data celebrata con una mostra vaticana e un convegno internazionale) uscirono insieme dal palcoscenico del mondo. Il laziale domenicano di Roccasecca dopo aver rifornito la civiltà d’una balsamica merce oggi ormai rarefatta, l’ottimismo della ragione, l’autostima dell’homo occidentalis riguardo alla capacità intellettuale di afferrare e indagare la realtà del mondo (non senza resistenze: Chesterton addirittura sosteneva che il devastante scisma luterano non fosse altro che la tardiva rivolta dei pessimisti del XIII secolo); il laziale francescano di Bagnoregio lasciando invece in eredità un finissimo tessuto speculativo spirituale (Joseph Ratzinger ne fu entusiasta estimatore) e un magistrale  capolavoro “politico”, spesso sottostimato e anzi tuttora aspramente contestato: il salvataggio del movimento di san Francesco, di cui Bonaventura ha operato il repêchage ecclesiale, da una crisi esistenziale acutissima. 

 

In vita i due teologi, dottore della Chiesa n. 5 e n. 6, furono al centro a Parigi d’un sommovimento universitario che poco ha da invidiare, quanto a squasso, ai moti sessantottini di fine millennio, una sorta di fiammeggianti Adorno e Horkheimer medievali; ma l’establishment “baronale” non voleva in cattedra questi due frati, per di più di ordini parvenu e papalini come i mendicanti, e usò ogni mezzo per sbarrare loro la strada nell’Istituzione dove pure avevano studiato e dove già insegnavano da baccellieri. Ma magistri no, non dovevano diventarlo! C’erano di mezzo questioni di potere e di pecunia, le lezioni erano a pagamento e i docenti secolari vedevano frotte di giovani affollare le aule – che a volte non bastavano e si scendeva a far lezione per strada – delle due star. Introiti a rischio. Per sovrammercato i due “intrusi” incarnavano anche forme di perfezione evangelica e attiravano molte vocazioni; anche qui, ancora offerte e lasciti che si allocavano altrove.

 

La lotta fu senza esclusione di colpi. “Isti demoliuntur vineas quia non possunt habere celebritatem vel famositaten nominis suis… in villa Parisiensi satis est turbatum studium per vulpeculas istas”, contro i baroni, avide volpi che devastano le vigne universitarie parigine inveiva Bonaventura. L’altro poi, il Bue muto, era impegnato in una titanica e temeraria impresa: depurare il Marx di allora (Aristotele) dalle scorie materialiste ed atee di colui “che ’l gran comento feo”, il musulmano Averroè, per guadagnare il filosofo pagano macedone alla causa della philosophia christiana. Tommaso era seriamente esposto ad accuse d’eresia. Ma la gioventù studentesca adorava entrambi gli intrepidi docenti, il Papa pure (e si fece sentire!), e alla fine la corporazione dei cattedratici universitari dovette abbassare le penne e fare spazio ai nuovi venuti. 

 

“Bene scripsisti de me, Thoma”, si tramanda che abbia detto al teologo, durante una visione, il 6 dicembre 1273, il Crocifisso innanzi al quale era solito pregare (nella sua cella a san Domenico maggiore a Napoli, dov’è tuttora); e verrebbe da immaginare che avesse soggiunto “… sed litterae tuae inintelligibilis sunt!”; infatti nella prelibata mostra celebrativa dei 750 anni dalla morte, presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, si possono ammirare anche due stupefacenti, emozionanti, manoscritti di pugno dell’Aquinate che solo due persone al mondo sono oggi in grado di decifrare causa la illeggibile grafia tomasiana; una sorta di personale stenografia adottata per mettere su carta il più rapidamente possibile le sue dense e ponderose opere. Se ne lamentarono in effetti i suoi allievi e confratelli e a un certo punto Tommaso smise di scrivere e, con sollievo generale, iniziò a dettare. Fortissimo in ortodossia, zoppicante in ortografia. 

 

Nei felpati ambienti della Bav – che possiede 350 volumi antichi relativi a San Tommaso e 100 a San Bonaventura – in esposizione codici miniati, Summae in arabo, cinese, ebraico, antiche monete commemorative, edizioni manoscritte pocket dell’epoca; oggetti plurisecolari palpitanti di civiltà e di humanitas, un’autentica goduria immersiva in un secolo dominato da due giganti dell’altro mondo, due voltapagina della storia, un seraphicus ed un angelicus, che hanno i loro fan club attivi ancora oggi.

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