Ipocrisie occidentali
Settemila firme contro Israele. Zero contro i regimi che ingabbiano gli scrittori
Nomi di peso nel mondo della letteratura e dell'editoria (anche italiana) si mobilitano per boicottare lo stato ebraico. Ma cala il silenzio su Jimmy Lai, Grigory Chkhartishvili, Turhan Günay e tanti altri intellettuali messi a tacere in galera e fatti direttamente scomparire perchè contrari ai loro governi
Ci sono anche centinaia di scrittori, accademici ed editor italiani (alcuni pubblicati dal Corriere della sera e dalla Nave di Teseo) fra i settemila firmatari dell’appello per boicottare la cultura d’Israele. Alcuni sono nomi di peso, da Jonathan Lethem a Khaled Hosseini (l’afghano autore del “Cacciatore di aquiloni”), assieme a vincitori del Nobel, del Booker, del Pulitzer, del Giller, della borsa di studio MacArthur, del National Book Award, nonché redattori delle “cinque grandi” case editrici e di molti editori indipendenti. E anche firmatari da Israele. L’appello era stato lanciato un mese fa raccogliendo mille firme e ora se ne contano settemila e di nuove, alcune scontate come Greta Thunberg e altre meno, come Percival Everett.
Sally Rooney, talentuosa romanziera irlandese e una delle prime firmatarie dell’appello contro Israele, ha giurato che i suoi libri non appariranno più tradotti in ebraico. Non ha battuto ciglio quando il suo romanzo “Persone normali” è apparso in farsi, tradotto dalla casa editrice iraniana Shani, o in turco. Perché non si ricorda alcuna iniziativa dei settemila contro i regimi che massacrano e ingabbiano gli scrittori. Con amici come questi, la libertà non ha bisogno di nemici. Nessuno di loro che fiati per il coraggioso editore democratico di Hong Kong Jimmy Lai, da quattro anni chiuso in un carcere di massima sicurezza cinese che gli consente non più di cinquanta minuti di aria al giorno, accusato da Pechino di “cospirazione, collusione con potenze straniere e pubblicazione di materiale sedizioso”, soltanto per aver difeso le antiche libertà di Hong Kong dalla “normalizzazione” cinese.
Nessuno che lanci appelli per boicottare le istituzioni culturali russe, dopo che un tribunale ha ordinato l’arresto di Grigory Chkhartishvili, noto con lo pseudonimo di “Boris Akunin”, giallista di successo e dissidente antiputiniano con l’accusa di “giustificazione del terrorismo”, per aver espresso sostegno all’Ucraina dopo l’invasione russa. Nessuno che firmi qualcosa contro l’Iran, dove lo scrittore Hossein Shanbehzadeh è appena stato condannato a dodici anni di prigione per aver risposto con un singolo punto, un punto, a un post sulla piattaforma social X del leader supremo iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei. Nessuno che perori la liberazione del critico letterario turco Turhan Günay, direttore dell’inserto letterario di Cumhuriyet; per Ali Çolak, caporedattore culturale di Zaman, saggista e studioso di Thoreau; per Necmiye Alpay, “il dizionario vivente della lingua turca”, una grande linguista; o per Irfan Sanci, accusato di “pubblicazione oscena e immorale”, a processo per aver tradotto e pubblicato “Le prodezze di un giovane Don Giovanni” di Guillaume Apollinaire.
Tutti finiti in galera, senza che un solo scrittore tra i settemila agitasse la pena e lanciasse appelli (in Israele gli unici scrittori in galera sono i terroristi palestinesi che hanno ucciso civili innocenti e che si sono dati alla scrittura). Neanche uno sbadiglio su Boualem Sansal, il romanziere di “2084” (Neri Pozza) da un mese scomparso nelle galere del regime algerino, che se non fosse per una dozzina di scrittori e intellettuali riuniti giorni fa a Parigi da Antoine Gallimard potrebbe essere ghigliottinato e in Europa non si muoverebbe una mosca. Se è ad Algeri che Sansal rischia di morire, è in occidente che forse sta morendo il gusto della libertà.
Eppure, cosa sia Israele, la sua democrazia, le sue libertà, la sua cultura, rispetto a Iran, Algeria, Cina, Turchia, Russia e altri paesi, i settemila devono saperlo, perché oltre a saper scrivere devono anche pur saper leggere. Ma ha ragione Kamel Daoud quando scrive, sull’amico e collega algerino Sansal: “Se rinunceremo a lottare un giorno la sua prigione sarà la nostra”. E i settemila ci sono già, nella loro prigione mentale.