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La mostra

Guido Guidi e quelle foto per seguire il tempo, piuttosto che fermarlo

Luca Fiore

Gli scatti di una vita, con il tentativo di assecondare e misurare il suo scorrere. Fotogrammi consecutivi stampati sullo stesso foglio, immagini realizzate spesso senza guardare nel mirino. La mostra al Maxxi di Roma

Penso a una fotografia che rispetti il suo mezzo – il suo specifico – in questo senso parlerei di riproduzione… (oggettività?). Penso a una f. che indaghi, che esplori… la macchina fotografica – non soltanto strumento per registrare una esplorazione già avvenuta, ma essa stessa strumento per (di) esplorazione – Penso a una f. come riflessione sulla (della) realtà (realtà è anche la stessa fotografia) Penso a una f. come processo di conoscenza – non credo a un risultato definitivo – esistono solo delle tappe”. E’ il 1971, Guido Guidi ha trent’anni e con queste parole cerca di comunicare la propria poetica al suo maestro Italo Zannier. L’appunto, scritto a mano, è riprodotto in una delle teche dell’imponente retrospettiva inaugurata la scorsa settimana al Maxxi di Roma. La mostra si intitola “Guido Guidi. Col tempo, 1956-2024” ed è curata da Simona Antonacci, Pippo Ciorra e Antonello Frongia, quest’ultimo massimo conoscitore del lavoro dell’artista cesenate. E’ un’iniziativa che, assieme all’omonimo volume che l’accompagna, pubblicato dall’editore inglese Mack, contribuisce, speriamo in modo definitivo, a correggere l’equivoco secondo cui Guidi sarebbe soltanto un bizzarro paesaggista, ossessionato dai luoghi marginali delle periferie italiane. Lo si era già capito abbondantemente grazie ad alcuni volumi pubblicati nel corso degli ultimi dieci anni, che proponevano sequenze di lavori inediti, in particolare “Di sguincio, 1969-1981” e “Lunario, 1984-1999”, nei quali appariva in tutta la sua forza la radice sperimentale del suo lavoro.


La mostra romana si apre con quella che è forse la sua sequenza più importante, dedicata a una stanza vuota di un edificio abbandonato a Preganziol, in provincia di Treviso. Sono immagini identiche, scattate ad alcuni minuti di distanza, nelle quali assistiamo allo scorrere del tempo, segnato dal movimento delle ombre proiettate dalla luce sulla parete spoglia. Il percorso si conclude in modo speculare, poi, con la fotografia dell’accostamento delle riproduzioni di due opere di Giorgione: il “Ritratto di giovane” della Gemäldegalerie di Berlino e de “La vecchia”, conservata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Quest’ultima riporta sul cartiglio in mano alla donna le parole che danno il titolo alla mostra “Col tempo”. La fotografia, in bianco e nero, realizzata nel 2021, a cinquant’anni di distanza dall’appunto per Zannier, assomiglia a una nuova dichiarazione di intenti, questa volta in retrospettiva. L’opera di Guidi, infatti, si concepisce come il tentativo non tanto di fermare lo scorrere del tempo nel bressoniano “attimo decisivo”, ma di assecondarlo, provando a misurarlo. Non a caso il grande capolavoro di Guidi, a cui è dedicata una parete in mostra, è il libro sulla Tomba Brion: ricognizione decennale del monumento funebre progettato da Carlo Scarpa, in cui l’architettura si svela, grazie alla perseveranza del fotografo, come meccanismo che interagisce con la luce, segnando lo scorrere del tempo e diventando strumento per la meditazione sul destino dell’uomo.


L’altro elemento su cui si fonda la poetica di Guidi, e che emerge dalle numerose sequenze presentate in mostra, è quello delle “varianti” (così si intitolava la prima monografia retrospettiva dell’artista, pubblicata nel 1995). Il processo creativo di Guidi, infatti, non sembra procedere selezionando il miglior scatto tra quelli realizzati: ciascun negativo viene considerato come “variante” dello stesso gesto-tentativo, la cui pregnanza sta nell’atto performativo dell’esecuzione della fotografia. Di questa idea ne sono testimonianza i numerosi casi in cui due o più fotogrammi consecutivi vengono stampati sullo stesso foglio di carta fotografica. In questo senso, perfino il caso o l’errore riescono a essere valorizzati. Alcune serie sono addirittura composte da immagini realizzate senza guardare nel mirino della macchina fotografica.


Quest’ultima è solo una delle testimonianze di un’altra caratteristica che attraversa, in modi di volta in volta diversi, tutta la carriera di Guidi: l’impostazione antiaccademica e antiretorica. Esiste una costante volontà di infrangere i dogmi della “bella fotografia”, rifuggendo i canoni della piacevolezza a buon mercato. Ci si accorge, così, che il Guidi del cliché “fotografo dei luoghi periferici” è solo una delle varianti del Guidi sperimentatore, in cui la lingua visiva del dialetto della provincia viene elevata a poesia secondo la lezione di Franco Fortini.


Una delle tante sorprese di questa mostra, in cui molte immagini vengono esposte per la prima volta, è la sequenza delle fotografie più recenti, che l’artista intitola “raccolta indifferenziata”. Si tratta di visioni vieppiù ravvicinate. Non luoghi, ma oggetti: il martello, la scopa, la pinza, la porzione di portone. Perfino un omino della Lego. Tra le opere che concludono la mostra, ed è l’ultima del libro di Mack , c’è la ripresa zenitale di una mela tagliata a metà, in cui il semino scuro richiama la pupilla di un occhio. E’ l’idea che sia l’immagine a guardarci, come avveniva per le icone della tradizione bizantina (Ravenna non è lontana da Cesena...).


Un solo difetto: forse cinquecento fotografie sono un po’ troppe anche per una mostra importante come questa. Il rischio è di arrivare alla fine stremanti. Ma sarebbe come criticare Francis Ford Coppola perché la sua Director’s Cut di “Apocalyps Now” è quindici minuti troppo lunga.
 

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