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Il saggio enciclopedico di Walter Siti. Con qualche illusione
Vulnerabilità e mortalità hanno spinto a proteggerlo fino a volerlo e immaginarlo immortale. In poche pagine erudite e informatissime, ecco tutta la verità sul corpo, che un giorno non avrà più desideri né amore
A interrompere con il suo prezioso contributo materialistico le mie libere cogitazioni autodifensive su mente umana e macchine pensanti, mi è arrivato il saggio di Walter Siti “C’era una volta il corpo” (Feltrinelli, pp. 149, euro 17). Siti è il più originalmente intellettuale fra i narratori italiani degli ultimi decenni. E dalla sua impietosa intelligenza realistica, incapace di illudersi, di sperare e di rimuovere la percezione di quanto ora accade e si annuncia nel futuro, vengono innumerevoli notizie e avvertimenti sul destino del corpo umano. La già attuale convivenza dei nostri corpi con la “civiltà delle macchine” e dei consumi vistosi, porterà il nostro corpo che si ammala, invecchia o non ci piace, a essere un insieme di protesi artificiali. L’opposizione fra corpo umano vivente e macchine biotecniche sarà sostituita da un corpo sempre più tecnologicamente modificato, che cerca di sottrarsi alla morte e alla natura cessando di essere materia vivente.
Riprendendo e sviluppando a oltranza l’idea di Pasolini sulla “mutazione antropologica”, Siti non tralascia niente di quanto è in atto da sempre nei rapporti delle culture umane con la semplice e naturale realtà corporea: che del resto non è mai stata né semplice né naturale. Fin dall’inizio della vicenda umana, la vulnerabilità e mortalità del corpo hanno spinto a proteggerlo fino a volerlo e immaginarlo immortale. Già molto prima degli antichi egizi e fino agli attuali sedicenti cristiani, l’idea di una vita perfino fisica oltre la morte fisica non è mai scomparsa. E comunque tutta la storia materiale, sociale, economica, culturale e politica del genere umano ha investito il corpo e i corpi: femminili e maschili, di schiavi e padroni, di contadini e operai o intellettuali, aristocratici e borghesi. Siti riassume in poche pagine erudite, e informatissime, l’intera storia come storia del corpo, senza trascurare la sua singolare, personale esperienza autobiografica in proposito.
Alla fine del suo libro si leggono queste righe: “I corpi che incontro nel ‘quadrilatero della moda’, qui a Milano, sono corpi in transizione; non nel senso consueto di transizione di genere, ma perché rappresentano le avanguardie dei corpi che passeggeranno quando io non ci sarò più. Però niente nostalgie conservatrici: più che altro curiosità per il futuro dei corpi nell’epoca della loro riproducibilità tecnica. Questi sono corpi borghesi, fashion victim, ma è a loro che guarda la classe piccola e media (…) massa di manovra per l’invasione della virtualità. Il sesso sarà sempre più online (…) Saranno corpi fragili a furia di contrastare la fragilità, corpi per buona parte inutili alla riproduzione della specie; lo smartworking li avrà disabituati allo spazio come il fine a cui tenderà il loro fisico (…) Ecco la nuova specie: i loro corpi saranno gli involucri in apparenza tradizionali di un sistema culturale sempre più in affanno, in un mondo che si sarà rassegnato a essere bersagliato da segni che non capisce; le voci che udranno durante il lavoro o l’intrattenimento saranno in maggioranza voci sintetiche. Corpi che comunque non potranno fare a meno di desiderarsi, e magari di amarsi”.
Il saggio di Siti è enciclopedico, ma è da questa immagine conclusiva che nasce retrospettivamente l’intero libro. Eppure, proprio alla fine, con l’ultima frase, ricompare la negata, maltrattata nostalgia del passato in forma di speranza (poco fondata) nel futuro. Sui corpi viene detta spietatamente tutta la verità, che però all’improvviso è in parte velata e dimenticata. No, caro Walter, quei corpi incorporei non avranno desideri, non potranno averli. E la parola “amore”, che alla fine tu usi, sarà, come spesso è già ora, un segno senza significato.