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Napoli, mille e una storia di cinema, fiction e teatralità

Francesco Palmieri

Infinite sono le maschere di chi la abita, ogni scorcio un set. Meglio interpretare un personaggio che rimanere “zi’ nisciuno”. Da De Crescenzo a “L’amica geniale”, da “Inganno” a “Mare fuori”

“Non v’ha giorno non v’ha sera
ch’io non vada a una primiera,
passo la mia vita intiera
sempre dentro al Ci-ne-mà”.

Armando Gill, Cinemà-cinemà


E’ più facile contare gli struffoli in un piatto che calcolare i film, le serie tv, i cortometraggi appena usciti, di prossima visione o in lavorazione ambientati a Napoli: nello scenario di adesso, in quello di cinquanta o di ottant’anni fa, con personaggi in carne ossa o a cartoni, su soggetto e sceneggiatura originali o che riprendono un’opera teatrale, che si rifanno a un romanzo o a un altro film, mentre da un film e da una serie si ricavano, con percorso di ritorno, un libro o una pièce.

Nell’ultimo fine settimana dell’anno, turisti e residenti vagolanti tra San Gregorio Armeno e via Toledo potrebbero essere altrettante comparse di una nuova produzione che ne abbisogna per una recita perenne e collettiva. Sarà un luogo comune, eppure i fatti lo confermano a dispetto degli anticonformisti per principio: Napoli è tutta un set. E ne ha per tutti i gusti. Nel bene e nel male. Nelle ore di malacqua e di malombra, con un Pino Daniele che canterebbe Quanno chiove, o in quelle di lucore immaginando i mandolini tremolare ’O paese d’’o sole, mentre è invece Geolier che campeggia su Spotify come sui cartelloni stradali, dove in dolcevita nero pubblicizza un’azienda di abbigliamento.

Più o meno nelle stesse settimane hanno affollato le multisala nazionali Parthenope di Paolo Sorrentino e Napoli-New York di Gabriele Salvatores, ma sono usciti anche Criature dell’italo-francese Cécile Allegra ed Hey Joe, che non inganni il titolo: il film rievoca la Napoli del ‘44 alla luce di un ritorno venticinque anni dopo. A firmarlo è il regista romano Claudio Giovannesi, che aveva già diretto La paranza dei bambini dal romanzo di Roberto Saviano. Solo il racconto della città nell’ultima guerra mondiale, o il suo ricordo, costituisce un robusto filone: da Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy a La pelle di Liliana Cavani (sul libro di Malaparte), da Maccheroni di Ettore Scola a Napoli ‘44 di Francesco Patierno (germinato dall’omonimo memoir dell’inglese Norman Lewis pubblicato in Italia da Adelphi). Senza dimenticare Paisà, che Salvatores difatti omaggia e cita nella sua ultima opera. Si potrebbe continuare con intrecci più fitti senza mai costipare la matassa artistica della città dalle mille e una storia, ma le pagine scricchiolerebbero. Pertanto, punto e a capo.

 

             

 

Torniamo al luogo comune: Napoli è tutta un set. Oppure, e fa lo stesso, un celebrato teatro che s’autocelebra sempre. Il 6 ottobre scorso sono stati festeggiati i quarant’anni di Così parlò Bellavista, che più passa il tempo più non pare un vecchio film ma un peculiare stato d’animo. Piaccia o no Luciano De Crescenzo, i decenni non hanno obliterato lui ma i detrattori. Martedì 10 dicembre, a Forcella, una cerimonia pubblica ha sancito l’intestazione a Nino Taranto delle scale adiacenti al Teatro Trianon Viviani, intitolato a sua volta al grande attore e commediografo stabiese. Giusto il giorno prima, il pubblico aveva detto addio alla quarta e ultima stagione de L’amica geniale, trasposizione della tetralogia letteraria di Elena Ferrante, con più di tre milioni di telespettatori (intanto dalla serie è scaturito un libro sul detestato personaggio di Nino Sarratore: Lo Stronzo Geniale di Raffaella Ferré per Colonnese).

Come accade per Parigi o New York, anche chi non è mai stato a Napoli ne riconosce dal piccolo o grande schermo certi angoli caratteristici, che a essere corrivi definiremmo “iconici”: il belvedere di San Martino; le vedute di Posillipo; il taglio di Spaccanapoli tra i vicoli; la silhouette di Capri dove si vuole e non sempre si può andare; l’Italsider com’era e l’Italsider dove non c’è più; piazza Plebiscito quando vi si parcheggiavano le auto e da quando non ci sono più; la piazza del Gesù vista ovviamente da Palazzo Pandola, evocativo di Filumena Marturano versione De Sica in Matrimonio all’italiana o della partita a carte del conte Prospero con Gennarino (L’oro di Napoli), che riscritta da Antonio Capuano si trasforma in una sfida stile Grand-guignol (Polvere di Napoli). E’ sempre quello il posto, con la melodia di Lazzarella che accompagna in sottofondo mentre la gente esce e entra “dint’’a cchiesa d’’o Gesù”.

Era una città per cantare, altro luogo comune ma vero; era ed è una città per filmare. Non solo grazie alla topografia da bel presepe, ma anche per i pastori che ci stanno su. Cantava Sergio Bruni che “’e strade ‘e Napule chesto so’ / Nu palcoscenico”, e “’a ggente ‘e Napule chesto vo’ / Nu palcoscenico”. Poetava Eduardo De Filippo: “Napule è ‘nu paese curioso / è ‘nu teatro antico, sempre apierto. / Ce nasce gente ca senza cuncierto / scenne p’’e strate e sape recità”. E’ certamente anche questione di lingua: il regista Saverio Costanzo, creatore della serie L’amica geniale, ha dichiarato che “il napoletano sta alla recitazione come l’inglese sta al rock”.

“Senza cadere nei cliché, la differenza si sente”, ci ribadisce il regista Pappi Corsicato: “Non dico che l’attore napoletano sia migliore o peggiore, ma ha una impostazione di base naturale, che non s’impara a scuola, una libertà espressiva del corpo e della voce. C’erano un tempo le stirpi di teatranti, ma è una matrice che adesso quasi non esiste più e tuttavia quest’attitudine prosegue. Credo dipenda da un fattore antropologico quest’atteggiamento sopra le righe, quel certo modo istrionico che non è detto debba piacere per forza o rendere più simpatici, ma segna indubbiamente una differenza”. 

Sono tanti i potenziali attori che non imboccano la professione ma che in virtù di quella “cosa in sé” saranno prima o poi pure passibili di un ciak, magari in un ruolo da caratteristi o per un tipo di “macchietta” (genere divertente nato nei café chantant con copyright del sostantivo spettante, ça va sans dire, a un autore napoletano: Ferdinando Russo). Facce intostate da giovane killer, volti d’angelo volubile o di finto cardinale, visi rubicondi o emaciati di troisiana melanconia. E insomma: maschere. Ce n’è per tutti i registi e lo sapeva Fellini che andava a rifornirsi di materia prima a Napoli, dove sono ancora diffusi (basta leggere i manifestini mortuari) soprannomi indicativi del “tipo” defunto e della sua ricezione sociale, vantata persino se ha un impatto buffo. “A Napoli ci sono molte persone che vivono della loro stessa caricatura; ridono di se stesse” osservò Guglielmo Peirce: “Accade che queste persone per un’impennata di umore, ad un certo momento, danno un’ultima toccatina alla loro vita normale, andata a male, assurda, e creano di se stesse un personaggio che fa ridere: astratto, pazzesco, che sta in bilico al limite della vita reale”. Ed ecco allora che “c’è il cuoco astrologo, c’è il lustrascarpe filosofo, c’è l’indovino, c’è l’uomo che di notte parla con Garibaldi e c’è chi ogni settimana va sulla luna. Napoli certamente è attraversata sotterraneamente da una potente, da una robustissima vena di pazzia. Una pazzia lucida, sottile, inquietante”.

E’ preferibile rappresentare un personaggio purchessìa che sottostare all’anonimato e rimanere parte della nota categoria locale del cosiddetto “zi’ nisciuno” (lo “zio nessuno”). Ossia l’uomo insignificante che, spiegava Carlo Bernari, “si aggira per i nostri vicoli, notte e giorno, col sole o col maltempo, e non ha volto, non ha nome”; colui che Giuseppe Marotta definiva “l’ombra di un individuo che la dimenticò partendo”. Inutile, inclassificabile, “egli per noi e per chiunque è Nessuno, ma è zio”. Perché forse persino la sua è una parte in commedia, pencolante tra l’essere e il non essere: la parte di chi è un niente per tutti, ma a tutti in fondo è parente.

Sono decine di migliaia, con una stima approssimata al ribasso, le facce che ha scansionato in carriera il “terzo occhio” di Marita D’Elia, napoletana, tra i maggiori casting director italiani del cinema e della tv. Ci racconta che quando aprì il reclutamento di nuovi protagonisti per la serie Mare fuori di quest’anno, la sua casella di posta elettronica andò in panne: “Ricevetti oltre ventimila candidature appena dopo la diffusione dell’annuncio. Arrivavano al ritmo di una decina al minuto, finché Google non mi bloccò”.

“Ho svolto casting in altre città italiane, ma in nessuna ho trovato la disponibilità di Napoli e una tale, straordinaria varietà umana”, dice D’Elia. “C’è voglia di manifestarsi, c’è una tendenza naturale alla teatralità che facilita il nostro lavoro. Ricordo ancora Reality di Matteo Garrone, una dozzina d’anni fa, come una vera e propria ricerca antropologica di volti che fecero la ricchezza di quel film”. Numerose scoperte di D’Elia hanno trovato riscontri successivi, da Maria Esposito (Rosa Ricci in Mare fuori) ad Antonio Guerra, lo scugnizzetto Carmine coprotagonista di Napoli-New York e di Criature: “Era nato per fare l’attore. Lo capii appena lo vidi durante le selezioni per Il bambino nascosto di Roberto Andò, ma lui era troppo piccolo e il ruolo fu affidato a Giuseppe Pirozzi, che poi ha recitato anche in Mare fuori e in Criature”.

Ogni faccia una storia. Ogni storia una faccia. Si concentravano, una volta, in Galleria Umberto I, che era “come uno specchio in cui si riflette molta vita di Partenope la Bella, di Partenope la Degradata, di Partenope guappa e camorrista, di Partenope che qui ammassa il popolo delle comparse della vita”. Così scriveva Luigi Compagnone molto prima che esistesse TikTok, la nuova galleria virtuale dove ciascuno può recitare un personaggio facendosi sceneggiatore e regista di se stesso. “Circa il 40 per cento dei contenuti prodotti in Italia su questa piattaforma sociale riguarda Napoli e il suo hinterland”, nota il sociologo Marcello Ravveduto, professore di Digital Public History all’Università di Salerno e autore di saggi sulla fiction e la criminalità. Per lui la fertilità cinematografica partenopea “ne riflette una dimensione paragonabile ad alcune grandi metropoli che hanno vita autonoma rispetto alle proprie nazioni: come New York, Buenos Aires, Rio de Janeiro, Napoli ha la capacità di costruire un immaginario che invade il panorama mediatico mondiale”. E’ un racconto che non stanca e non si stanca, “perché la cultura autoctona è talmente forte da assorbire ciò che arriva e trasformarlo a propria misura. Napoli ingloba la trap, il rap, la soap opera e li restituisce con una narrazione originale ma mutevole nel tempo”. E’ l’arte in cui già fu maestro Eduardo Scarpetta, che rivestiva la pochade francese con abiti di sartoria napoletana per ammazzare Pulcinella. Fu strepitoso il successo, anche se oggi sappiamo che il delitto non gli riuscì. 

“All’inizio di questo secolo”, prosegue Ravveduto, “sembrava che il racconto della dimensione criminale avesse sostituito la cartolina col Vesuvio, poi però si è aperta una stagione che si è allontanata dal mainstream di Gomorra e si collega al nuovo ruolo di Napoli sulla scena turistica internazionale: c’è sì un ritorno all’oleografia con lo stimolo della tecnologia digitale e le grandi panoramiche coi droni, ma c’è anche il racconto di una città che supera le ombre, come testimonia il successo mondiale de L’amica geniale”.

 

                 

 

La fiction toglie alla città e la città riprende dalla fiction, come nel più longevo esempio di marketing territoriale offerto dalla vera soap opera italiana, Un posto al sole, frutto della formidabile intuizione di Giovanni Minoli. “Nei processi di comunicazione con il resto del mondo,” aggiunge Ravveduto, “questa città rappresenta da sempre una vetrina del patrimonio identitario nazionale. Se Milano resta la capitale economica, Napoli si conferma la capitale dell’immaginario. Per dirla in breve, è uno stereotipo performante”.

Stereotipi, luoghi comuni: che guaio restarne offesi (un tanto d’ironia andrebbe presa in prestito, se non da Totò, dal nutrito magazzino di boutade dei tifosi di calcio partenopei). Ecco che Ingrid Bergman, tormentata moglie inglese, procedendo in Rolls-Royce verso Napoli sulla via Appia si domandava, nel Viaggio in Italia di Rossellini, se ci fossero rischi di malaria; ecco il personaggio di Alberto Arbasino che per arrivare in tempo al Teatro San Carlo esorta, in Fratelli d’Italia, a lasciare le macchine buttate in piazza Plebiscito come va va, “così le credono della camorra e le rispettano”. Sono due tra diecimila esempi di autoesorcismo poco elegante ma da ridere, che tanti visitatori avranno seriamente pronunciato tra i denti – e magari sì, qualcuno avrà avuto ragione.

Con oleografie, stereotipi e dintorni importa saperci giocare. Un esperto è il regista Luca Miniero: esordì nel lungometraggio con Incantesimo napoletano, storia fiabesca di una bambina autoctona ma dalle misteriose tendenze meneghine e dall’accento milanese per la disperazione dei vesuviani genitori; poi fu la volta di Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord, classica contrapposizione proponibile ieri, oggi e domani quando più e quando meno. “Non so in quale misura questo dualismo rimanga attuale come allora, però dirigendo commedie so per certo che si ride solo se c’è qualcosa di vero”, dice Miniero, napoletano dell’Arenella (quartiere ancora poco raccontato al cinema ma evocato da un suo toccante documentario del 2023, Dalla parte sbagliata). Come Edoardo De Angelis e Mario Martone, Miniero si è mosso tra il palcoscenico, i libri e il piccolo schermo, rifacendo per la televisione Napoli milionaria!, dirigendo la seconda stagione di Vincenzo Malinconico, avvocato d’insuccesso e una serie tv che riproporrà al pubblico di Rai 1 il Rione Sanità nel prossimo autunno.

E’ ispirata all’operazione di recupero sociale compiuta dallo storico ex parroco del quartiere: don Antonio Loffredo, già ispiratore del personaggio interpretato da Francesco Di Leva nel film Nostalgia di Martone del 2022, dall’omonimo romanzo postumo di Ermanno Rea. E’ invece Carmine Recano a impersonare il sacerdote per Miniero, che in occasione delle riprese ha riscoperto i meandri di una zona poco nota anche a molti napoletani: “Con trentamila abitanti, la Sanità è una città nella città, consegnata a una sua autonomia anche dal punto di visto fisico: non ci capiti per caso, ci devi andare apposta, ma chi la scopre resta affascinato. Ci abitano famiglie del Rione da molte generazioni, ma anche tantissimi francesi: è un mischione culturale che ne fa un posto unico. Forse disturbano i troppi motorini, ma dove arriva la ztl giunge spesso anche il turismo più selvaggio” (e non vuol dire che “il problema è il traffico”, perché se don Loffredo viene tanto raccontato è proprio per la lotta alle incrostazioni camorristiche).

Città nella città, la Sanità sta a Napoli come la vecchia Trastevere più o meno stava a Roma, nel senso che un trasteverino si proclamava tale prima che romano. Lo precisò nel suo romanzo Ermanno Rea: “Se Napoli è un mondo a parte rispetto al resto del pianeta, la Sanità è un mondo a parte rispetto alla stessa Napoli”. “Strade strette e tortuose, palazzi fatiscenti, alle spalle una storia lunga più di due millenni, testimoniata da ipogei, altari, sepolcri scolpiti, scale che scendono sottoterra come volessero raggiungere le viscere del pianeta”. Nel quartiere natio di Totò, Luigi Necco, Riccardo Pazzaglia e del “sindaco” eduardiano, di cui Martone ripropose la celeberrima commedia (con Di Leva nei panni del protagonista Antonio Barracano), si cammina sull’epidermide di tufo che ricopre i morti. Non solo quelli delle catacombe. C’è il Cimitero delle Fontanelle, l’imponente ossario delle pestilenze e dei colera chiuso dal 2018 e di cui è stata finalmente ratificata la riapertura. Sarà affidato alla Cooperativa La Paranza, fondata proprio da don Loffredo nel 2006, che già cura le catacombe di San Gennaro e di San Gaudioso. Consacrato alle anime purganti con le sue migliaia e migliaia di teschi, famosi alcuni tra i devoti come donna Concetta e il Capitano, ma quasi tutti anonimi, il Cimitero delle Fontanelle ha schiuso il ventre a romanzi e pellicole varie. Da quel Viaggio in Italia, in cui sconvolse la sconvolgibile Bergman, a Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller a I guappi di Pasquale Squitieri (il quale era tra quelli che puntualizzavano: “Io sono della Sanità”). L’auspicio è che il turismo apprezzi il luogo ma non lo dissacri, e che al sentore della cera non vada a mischiarsi, nella vasta penombra, il tanfo di novelle friggitorie.

E già, gli odori: Benedetto Casillo, tra gli attori del Bellavista decrescenziano, oggi lamenta di non sentire più il profumo di salsedine sul lungomare. Le zaffate dello street food non competono invece con gli effluvi minoritari della zona meno turistica e più cosmopolita. Nelle grigie traverse intorno alla Ferrovia, dove aleggiano gli aromi speziati delle cucine etniche, bighellonò per un certo periodo la strana coppia di Caracas, personaggio irregolare in via di conversione all’islam, ed Ermanno Rea, il vecchio comunista tornato in tarda età nella città d’origine, che mai avrebbe immaginato di suscitare da morto tanto cinema. Dopo Nostalgia, è arrivato nelle sale a febbraio scorso il film nato dal suo romanzo Napoli Ferrovia.

Caracas è stato diretto da Marco D’Amore, che ha anche ricoperto il ruolo dell’amico di vagabondaggi e di litigi di quell’ultimo periodo dello scrittore, interpretato da Toni Servillo. Pare che il set sia stato interdetto al Caracas protagonista del libro, che non è un personaggio immaginario come i più avranno creduto, anzi a conoscerlo e a sentirne certi racconti lunari non ti manca la sua trasposizione cinematografica: “Sono vittima”, aveva confidato a Rea, “di una sorta di sfrenatezza non so dire se psichica o mentale: si chiama eccesso di immaginazione. E’ una vera e propria malattia, un disturbo dell’anima, si potrebbe dire, anche se chi s’intende di psichiatria sorride quando io mi esprimo così”. I due, forse perché così diversi, diventarono grandi amici e lui si fece per davvero musulmano perché sul biglietto da visita che ci porge sta scritto: Abdullah Ferdinando Ottaviano Quintavalle, in arte Mexico, come si firma da fotografo freelance. Cinema o no, il vero set era là fuori: dovevano essere uno spasso le serate nella pizzeria di piazza Dante con il quartetto fisso di Caracas, Rea, Tullio Pironti (il pugile editore che aveva lì il suo “quartier generale” con la storica libreria), Marco Ottaiano, oggi professore universitario e allora un giovane editor. Rea gli affidò la prima lettura di Napoli Ferrovia e lui suggerì di espungerne una parte consistente poi divenuta il nucleo di Nostalgia. Fu sempre a quel tavolo del “quartier generale” che Pironti, anni prima e con un altro commensale, aveva partorito l’idea di un libro di successo anche grazie al film di culto che ne seguì: Il camorrista di Giuseppe Marrazzo, poi opera d’esordio di Giuseppe Tornatore nel 1986.

Napoli però è mille culure: aveva ragione Pino Daniele, alla faccia di chi inneggia alla “complessità” ma vuol vedere tutto in bianco & nero. La miniserie Inganno in sei puntate, diretta da Corsicato per Netflix e pubblicata a ottobre scorso, si discosta dalla retorica di una umanità periferica più profonda di quella borghese e dei poveri sempre più interessanti dei ricchi. E’ la storia di un contrastato amore tra la facoltosa protagonista, che vive in uno splendido albergo della Costiera amalfitana, e un uomo molto più giovane: “E’ stata vista da 25 milioni di telespettatori in tutto il mondo”, dice Corsicato, “e ho calcato la mano sugli aspetti del benessere e del lusso, su luoghi meno rappresentati, su un altro lato di Napoli che esiste ma è poco raccontato, perché forse si pensa che la vita dei ceti più abbienti attragga di meno. Eppure non è così”.

Quel che manca tra i “mille colori” della filmografia partenopea, secondo Miniero, è invece un crime borghese con qualche descrizione della città esoterica e magica, tentativo soltanto abbozzato in Napoli velata di Ferzan Özpetek. Ma come escludere che mentre lo scriviamo qualcuno non ci abbia pensato. A petto di tanta fertilità, per ogni cronista è giustificato il fiatone.