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Cultura di massa cercasi. È la grande scomparsa insieme con la realtà, dice Vanni Codeluppi

Annamaria Guadagni

Siamo stati inghiottiti da uno sciame digitale. I media e le nuove tecnologie ci permettono di “costruire mondi paralleli, altre realtà sempre più coinvolgenti nelle quali ci immergiamo”, spiega il sociologo dell’Università di Modena e Reggio

Ah i nasi arricciati al solo sentore del midcult e gli snob più efferati pronti a sdoganare il monnezzone divertente pur di schiacciare l’odiato prodotto di media cultura, anzi di falsa cultura, ingannevole e pretenzioso. Tanto il monnezzone mai avrebbe potuto insidiare o confondersi con la cultura alta e dunque era consentito abbandonarsi al divertimento senza sensi di colpa… 

 
Poi venne Umberto Eco (grazie, professore) a dire che il bello e il brutto sono spiritelli capricciosi: non si lasciano inchiodare  in una fascia tipologica preordinata di alta media o bassa cultura. E si possono trovare (o anche no) su qualunque piano dello scaffale. C’è ancora qualcuno in giro che disconosce a “Corto Maltese” di Hugo Pratt le qualità di un’opera d’arte?

  

“La morte della cultura di massa” di Codeluppi, professore all’Università di Modena e Reggio, si appoggia a una robusta letteratura scientifica

  
Certo, tutto questo è preistoria, ma è utile per orientare la bussola e capire dove siamo. Una sintesi folgorante di oltre un secolo di cambiamenti nell’industria culturale  e nelle oscillazioni del gusto per il cibo della mente si trova condensata in un piccolo saggio pubblicato da Carocci quest’autunno. “La morte della cultura di massa” di Vanni Codeluppi si appoggia a una robusta letteratura scientifica per descrivere la sua evoluzione fino a noi, che adesso siamo qui a salutarla con gli annessi e connessi. E assistiamo all’inquietante declino della democrazia, del ceto medio e della media cultura che hanno fatto da ago della bilancia di equilibri sociali sempre precari ma accettabili in termini di civiltà. 
 

Se volessimo riassumere tutto in una formula sbrigativa, potremmo dire che quel tessuto connettivo si è lacerato perché le masse, intese come insiemi abbastanza omogenei dotati di interessi, cultura e aspirazioni comuni,  si disgregano  formando entità volubili e un po’ mostruose: gli sciami digitali. In un vortice che avanza ronzando e tenendo dentro tutto quello che trova: il successo globale di “Barbie” e dei film della Marvel; il culto sadico per la serie coreana  “Squid Game” distribuita ovunque dalle piattaforme digitali di Netflix; le presidenziali americane e la banana di Cattelan;  l’idolatria del banale per cui 50 milioni di persone amano l’uovo di Instagram e 150 milioni di abbonati pagano OnlyFans per ammirare gli inestetismi di parti del corpo nude e mal fotografate. Fino all’avvento di simulacri integrali come le cripto valute e all’affermazione di altre realtà virtuali non più riferibili a un’origine nel mondo dei fatti e della cose.
   

Il 2024 è stato l’anno della banana di Cattelan e forse è utile partire proprio  da qui perché si tratta di un esempio di intuitiva, immediata comprensione. Anche se forse ha qualcosa in più del famoso orinatorio di Duchamp (1917), che Codeluppi indica nel suo saggio come prima provocatoria esperienza di trasferimento sul piano dell’arte di un oggetto banale: un orinatoio così com’era, senza alcuna trasfigurazione o elaborazione artistica. Però la banana di Cattelan attaccata con lo scotch argenteo, comprata a 35 centesimi e venduta a oltre 6 milioni di dollari, è deperibile e va continuamente sostituita con altre banane da 35 centesimi. Quindi l’acquirente compra veramente il nulla, un’idea che dovrà rigenerare e accudire lui stesso. “Eh ma anche questo non è nuovo”,  mi dice Codeluppi, professore di sociologia e sociologia dei consumi all’Università di Modena e Reggio Emilia. “Posto che l’arte concettuale è appunto vendere un’idea, molti altri artisti legati alla cultura ecologica hanno già realizzato opere con oggetti deperibili, da sostituire, come frutti e piante. Nel corso del Novecento l’operazione di Duchamp è stata ripetuta in modi più complessi, spesso attingendo – come ha fatto Andy Warhol – al mondo dei consumi, delle merci prodotte industrialmente o della pubblicità, ma in sostanza senza aggiungere nulla. L’aura dell’opera d’arte si sposta su un oggetto di uso comune attribuendogli un valore, che diventa anche commerciale grazie alla cornice del museo o della galleria. Se poi l’acquirente della banana di Cattelan, dopo aver speso milioni di dollari per un frutto qualsiasi, se lo mangia pubblicamente come è avvenuto siamo nell’esibizione classica della ricchezza venuta dal nulla che ingoia  l’opera d’arte con il suo valore di mercato”.    

  

L’aura dell’opera si sposta su un oggetto comune attribuendogli un valore, che diventa anche commerciale grazie alla cornice del museo

   
Fuori da ogni metafora, sembra però che l’oggetto, il dato materiale concreto – la banana – conti ovunque sempre di meno, quello che conta è la storia che genera. Se applichiamo questo assunto, per esempio all’esito delle presidenziali americane, lo si può vedere anche lì. Nell’analisi del successo o dell’insuccesso politico ormai prevale largamente il giudizio sulla comunicazione; l’efficacia della rappresentazione, la forza di questa o quell’altra narrativa, se vogliamo della miglior bugia. Poi vai in un outlet del New Jersey alla vigilia di Halloween e lo trovi deserto perché non ci sono soldi da spendere e le merci scontate costano come in Italia a prezzo pieno. Allora diventa  naturale chiedersi se non viviamo in un mondo ubriaco d’enfasi sull’importanza della comunicazione.

   

Nel “Tramonto della realtà” Codeluppi ricorda che già gli antichi discutevano: c’è una realtà indipendente dal modo di guardarla?

   
Vanni Codeluppi, che insegna anche comunicazione e marketing politico e istituzionale  alla Luiss Guido Carli, nel 2018 ha pubblicato, sempre da Carocci, un altro efficace micro saggio intitolato “Il tramonto della realtà”. Dunque è quello giusto cui chiedere se la rappresentazione, la comunicazione e i suoi effetti non siano grandemente sopravvalutati.  “Nel caso delle presidenziali americane direi di proprio di no. Non sono un esperto, ma mi sono fatto l’idea di una condizione molto difficile per alcune fasce della popolazione americana e in alcune zone dove la crisi ha inciso di più. Complessivamente però gli indicatori dell’economia non erano negativi nella situazione pre-elettorale, mostravano una riduzione dell’inflazione e una crescita dell’occupazione. Lì si sono confrontate due visioni del mondo: una legata al passato, basata sulla conservazione di valori tradizionali con la promessa di tornare a un’epoca felice; e l’altra progressista, ma con una candidata partita tardi per la resistenza di Biden a restare in corsa e che non ha avuto il tempo di farsi conoscere. Non so se Harris avesse davvero le carte per affermarsi, ma effettivamente la sua visione è stata raccontata male e nella campagna ci sono stati molti errori di strategia. Credo proprio che abbia senso dire che i democratici non sono stati efficaci sul piano della rappresentazione”.

   
Allora spostiamo la questione su un altro terreno, il mercato della cultura. Nell’industria editoriale per esempio, spesso si ritiene che se un progetto non ha buon esito dipende dalla comunicazione insufficiente o sbagliata. Difficilmente si mette in questione l’oggetto in sé, come se non avesse qualità proprie. “E’ la mentalità corrente”, prosegue Codeluppi senza scomporsi. “Le persone sono sempre più  convinte che la rappresentazione sia prevalente. Un prodotto può anche essere modesto ma, se è sostenuto da una grande idea e da un buon investimento di marketing, cammina. Guardi la serie di ‘M’: Scurati ha avuto l’idea geniale di raccontare il fascismo attraverso Mussolini e i suoi libri hanno avuto successo in tutto il mondo; il livello letterario è discreto, ma ciò che si compra è l’idea, non il valore intrinseco dell’opera. Potrei fare lo stesso ragionamento sulla saga dell’‘Amica geniale’ di Elena Ferrante, che propone un’idea di amicizia femminile in sintonia perfetta con un mondo dove le donne leggono sempre di più e gli uomini sempre meno. Oppure per ‘Il nome della rosa’, altro successo mondiale: Eco, a mio avviso, è stato un grande semiologo, non un grande letterato, i suoi libri sono difficili da leggere ma  dietro c’è una idea molto forte…”

  
Insomma il paradigma non è così distante da quello dell’arte concettuale. La grande idea può essere l’invenzione o la trasformazione creativa di un genere: il thriller medievale erudito che non esisteva, il ritorno di un fantasma della storia ingombrante e insepolto, la reinvenzione – all’altezza del XXI secolo – di un classico come “Piccole donne”. Tutte, sottolinea il professor Codeluppi “sono idee originali, appartengono al loro autore e sono state molto ben comunicate dall’industria culturale. L’incontro tra queste due cose, oggi conta di più del valore letterario intrinseco dell’opera”. 
 

Del resto, la via di uscita dal dominio della realtà per entrare in quello della rappresentazione, del come la si racconta, l’abbiamo imboccata da tempo immemorabile. Nel “Tramonto della realtà” Codeluppi ricorda che nell’antichità i filosofi sapevano già che la realtà non esiste di per sé, indipendentemente dal modo di guardarla e di rappresentarla. Allora dove sta la differenza, il salto? Ovviamente nell’enorme  sviluppo tecnologico dell’universo mediatico. “Sono i media e le loro tecnologie – dice Codeluppi – che via via ci hanno dato la possibilità di enfatizzare questa rappresentazione fino a costruire mondi paralleli, altre realtà sempre più coinvolgenti nelle quali ci immergiamo”.
 

La tv a suo modo era già un mondo parallelo, talvolta più vero del vero, ma a fare la differenza è stato lo smartphone, il dispositivo portatile  che funziona come una protesi del nostro corpo, che integra o addirittura sostituisce i sensi, producendo “una trasformazione delle modalità utilizzate dagli individui per pensare e percepire la realtà culturale e sociale. Il mondo digitale”, prosegue Codeluppi,” è diventato a tutti gli effetti un’altra realtà dove viviamo, facciamo acquisti, lezioni scolastiche e  riunioni di lavoro o addirittura ci fidanziamo. Esiste ancora la vecchia realtà ma stiamo trasferendo sempre più funzioni in quest’altra, che è di natura diversa. Anche perché è di proprietà di aziende che raccolgono informazioni su di noi e le vendono ad altri.”.  
 

Insomma, se capisco bene, non si può più pensare il mondo digitale come alternativo alla realtà perché fa parte di noi e ci sta trasformando. Codeluppi scrive che, vivendo in simbiosi con lo smartphone,  non solo non sappiamo orientarci senza Google Map, ma ci siamo abituati al flusso continuo delle informazioni, alla storie senza fine, a un tempo di sopravvivenza delle immagini di sette secondi … Stanno cambiando i processi cognitivi e ci stiamo fluidificando a nostra volta. Siamo diventati, appunto, sciame digitale, aggregazioni di individui che condividono temporaneamente qualcosa pur restando isoloti, ” senza più nessun processo d’identificazione in un gruppo di ampie dimensioni”, senza formare vere comunità. 
 

Che cosa vuol dire far parte di uno sciame?, chiedo. “Lo  sciame è frammentato, fatto di tanti singoli che hanno soltanto la percezione di consumare qualcosa che risponde ai loro interessi”, risponde Vanni Codeluppi. “Il mondo digitale oggi lo consente e si va verso bolle in cui ciascuno consuma contenuti personali, proposti dall’algoritmo in modo sempre più preciso sulla base delle scelte fatte in precedenza. Il vecchio marketing considerava  segmenti omogenei di mercato, target di gruppo. Ora ci sono delle nicchie, fatte di particolari interessi”.
   

Il problema delle fake news e della comunicazione, e la difficoltà dei sistemi democratici che necessitano di confronto tra opinioni diverse

  

Sono trasformazioni già avvenute e ancora in corso, ma c’è paradossalmente ancora scarsa consapevolezza pubblica dei loro effetti, per non parlare del governo delle questioni sensibili. Come proprietà e controllo di dati e contenuti personali o distinzione del vero dal falso, visto che con l’Intelligenza artificiale si costruiscono storie, simulazioni credibili ma totalmente inventate e offerte a menti sempre meno allenate a distinguere. Se guardiamo l’Italia, secondo dati appena forniti dall’Ocse, un terzo degli adulti non capisce le informazione che legge, è in condizioni di analfabetismo funzionale.
   

La macchina del falso, lo sappiamo, ha già azzannato il giornalismo con la moltiplicazione di fake news o con la sovrapposizione della propaganda ai fatti: nei teatri di guerra i giornalisti non riescono a entrare o vengono uccisi se vedono quello che non si deve sapere. “Più si diffondono falsi messaggi, più la comunicazione risulta poco credibile e diventa difficile costruire un mondo condiviso con gli altri, mettendo in difficoltà i sistemi democratici che, per costruire il consenso, hanno bisogno del confronto tra opinioni diverse. Insomma è arrivato il tempo delle regole o va in crisi il sistema sociale”, osserva Codeluppi.
Intanto, come in un film o in un romanzo di fantascienza, il mondo digitale corre e sta costruendo i suoi originali. Simulacri integrali che hanno la loro autenticità nel virtuale e basta. Non sono più copie o rappresentazioni; non hanno più bisogno, per esistere e generare valore, di una corrispondenza di qua, nel mondo fisico.

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