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Nei quaderni dal manicomio, Artaud prende a martellate la lingua. Un caleidoscopio

Rinaldo Censi

Sprovviste di qualsiasi progetto o struttura, distanti da qualsiasi ambizione diaristica, queste pagine distruggono la sintassi. Sono lo spazio in cui si accumulano le sue scorie, le forme che si portano dietro

Salutiamo con entusiasmo la recente pubblicazione di questa silloge tratta dai 404 “quaderni” scritti da Antonin Artaud tra il 1945 e il 1948, mentre era in cura presso alcuni istituti psichiatrici. Ventun quaderni tradotti e curati con assoluta perizia da Lucia Amara: "Questo corpo è un uomo. Quaderni 1945-48" (Neri Pozza, 343 pp., 30 euro).

 

La storia è nota.

 

Antonin Artaud giunge a Rodez, nella clinica diretta dal dott. Ferdière, vecchio sodale dei surrealisti, nel febbraio del 1943. E’ il poeta Robert Desnos a caldeggiare il suo ricovero lì, per sottrarlo agli stenti che subisce nell’istituto di Ville-Évrard, poco distante da Parigi. Vi era giunto dopo una serie di peripezie e un arresto a Dublino, avvenuto nel settembre del 1937. Voleva restituire agli irlandesi il bastone di San Patrizio. Viene espulso e trasferito a Le Havre in camicia di forza. Quando giunge a Rodez, nel territorio di Vichy, la guerra è ancora in corso. Artaud pesa 55 chili e ha solo otto denti in bocca. Provato dagli elettrochoc, nel 1946 gli amici lo faranno trasferire a Ivry, periferia di Parigi, nella clinica del dott. Delmas.

 

Che cosa contengono questi quaderni quadrettati scritti tra Rodez e Ivry, usati dagli scolari per svolgere i compiti a casa? Notazioni a matita, deliri, glossolalie a inchiostro blu nero e verde: la lingua francese viene fatta esplodere, triturata, presa a martellate. Difficile orientarsi davanti alle pagine manoscritte. “Artaud”, scrive Amara nell’introduzione, “non riempiva quasi mai la pagina di un quaderno per intero, e in certi casi ne scriveva più di uno alla volta e lasciava pagine bianche che riempiva successivamente”. I margini non sono rispettati e neppure il movimento della mano da sinistra a destra. Nella sua composizione caotica, zigzagante, capita che lo spazio si centri in un continuo a capo. Le pagine sono a volte accompagnate da disegni, ritratti. Presentano abbozzi di testi che diventeranno in seguito “Succubi e supplizi”, “Per farla finita con il giudizio di dio”, “Van Gogh il suicidato della società”. Quattro le sezioni, i grandi temi che Amara ha isolato: Corpo, Dio, Nome, Soffio. Una sistematizzazione mai rigida. Ogni termine si infiltra, si lega agli altri: sono i cardini su cui ruotano le questioni che assillavano Artaud da anni. Fin dai tempi de “Il teatro e il suo doppio”.

 

Sprovviste di qualsiasi progetto o struttura, distanti da qualsiasi ambizione diaristica, queste pagine distruggono la sintassi. Sono lo spazio in cui si accumulano le sue scorie, le forme che si portano dietro. E sono gettate lì dal movimento di un corpo mai stabile. “Caleidoscopio di forme”, “basso continuo” (le occorrenze non si contano, sono circa cinquecento), il corpo agisce sulla scrittura. Corpo visitato, corpo scosso dalle convulsioni (sarebbe interessante capire quanto la cura a base di elettrochoc, prescritta da Ferdière a Rodez, abbia segnato il suo lavoro). Jean Paulhan, l’amico che si era impegnato per farlo trasferire a Ivry, un misto di generosità e indifferenza, si struggeva con Henry Thomas: “Avremmo dovuto lasciarlo a Rodez. Lì ha scritto le sue cose migliori”. Spesso, in questo florilegio, la frase non produce senso. La pagina è ciò che raccoglie e distrugge.

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