La “differenza cattolica” ha ancora la forza di trasformare il mondo? Un libro

Sergio Belardinelli

Cultura ed esperienza nel complicato mondo di oggi. Leggendo "Una cultura che trasforma il mondo. La vita come relazione" di Pierpaolo Donati

Possiamo dire che oggi essere cattolici comporti ancora la consapevolezza di una differenza? Se sì, in che cosa consiste? Come è possibile affermare una differenza senza che questa diventi motivo di separazione e di conflitto, ma piuttosto di relazioni autentiche capaci addirittura di generare una cultura nuova? Intorno a queste domande ruota l’ultimo libro di Pierpaolo Donati, da pochi giorni in libreria: "Una cultura che trasforma il mondo. La vita come relazione" (Edizioni Ares).

 

Sociologo di fama internazionale, noto soprattutto per la sua sociologia relazionale, Donati attualizza in questo libro l’antropologia relazionale alla quale lavora specificamente da molti anni e che costituisce a suo avviso la carta vincente, anche se spesso non consapevole, della cultura cattolica. In particolare egli prende in esame la vita quotidiana come luogo privilegiato di manifestazione dell’umano, nonché di un’idea di laicità meno convenzionale di quelle con le quali siamo soliti confrontarci. Se per la Chiesa laico è colui che non è un chierico; se per la modernità secolare laico è colui che vive in questo mondo come se Dio non ci fosse, quasi che sia impensabile che egli professi convintamente una fede religiosa, secondo Donati è arrivato il momento di ridefinire il concetto in modo da liberarlo da queste ambiguità. Rivolto soprattutto ai cattolici, egli li richiama soprattutto a non dimenticare che “il mondo non è lo stesso per la gerarchia e per i laici”. Se la gerarchia mostra Cristo al mondo avvalendosi di una semantica eterna, non contingente, in una parola “atemporale”, il laico è chiamato a farlo dentro il tempo, secondo “una semantica della concretezza, dell’operatività, del contingente”, che sia capace di animare il mondo, trasformandolo nel “contesto sostanziale” delle finalità che danno senso alla sua vita quotidiana.

 

La società contemporanea tende invero sempre di più ad appiattire le nostre vite, ad allentare i nostri legami, gli impegni che abbiamo nei confronti di noi stessi e degli altri. Ebbene il laico credente è colui che vive la quotidianità secondo “uno spirito di relazionalità che genera trascendenza”: l’unico modo che abbiamo di penetrare il senso delle relazioni e delle cose di questo mondo, dando loro spessore e verità. Per la sociologia relazionale di Donati questa idea di laicità è in effetti una sorta di derivazione della fondamentale “matrice teologica della società”, alla quale egli ha dedicato diversi studi che qui non posso approfondire, ma di certo il poco che ho accennato finora è sufficiente a comprendere quanto nella sua prospettiva diventi importante il ruolo autonomo che i laici battezzati sono chiamati a svolgere nella società. Il magistero dei pastori resta ovviamente fondamentale, ma “nelle questioni temporali, i pastori dovrebbero essere sussidiari ai laici, non viceversa”.

 

Questa nuova visione implica tra le altre cose che il mondo non è più, per definizione, il nemico di Dio; lo può diventare ovviamente; ma in se stesso è il luogo della redenzione del cristiano, il luogo “in cui si sostanzia quell’esperienza del divino che è tensione relazionale fra l’umano e il soprannaturale”. Quanto alla vita quotidiana, disdegnata per secoli come una sorta di vita di second’ordine rispetto a quella dei signori, degli eroi e persino dei santi, essa diventa il “luogo proprio” dell’incontro tra l’umano e il divino, in qualunque tempo e qualsiasi cosa si faccia. Non un appiattimento sul fine ultimo trascendente, dunque, e nemmeno la ricerca affannosa di una liberazione puramente umana e mondana, ma una costante tensione relazionale tra umano e divino, senza che l’uno si confonda con l’altro. Come dice Donati, “non sono ancora molti quelli che hanno colto la dimensione profetica di un messaggio (quello relazionale) che contiene in nuce quella che potrebbe diventare la teologia della vita quotidiana e del laicato nel prossimo futuro: una specifica riflessione e una specifica vita riflessiva condotta sulla presenza del Dio trascendente nel mondo che divinizza l’uomo in corpo e anima qui e ora nelle cose ordinarie, non in un “altro mondo’ o in cose ‘speciali’”.

    

E’ questa figura, che Donati chiama di “laicato civile”, che sottrae la definizione di laico alla sua connotazione puramente negativa – l’altra faccia di una distinzione, quella tra ordine sacro e resto del mondo –, radicando la laicità nella vita quotidiana, la vita di tutti vissuta da ciascuno a modo proprio. “Laico, dice Donati, è colui che vive una vita quotidiana puramente civile” e che, soprattutto, sa educarsi alle relazioni.

   

Poco sopra dicevo dell’antropologia relazionale che sta alla base di questa idea di laicità: un’idea di uomo che ha indubbiamente un’identità originaria che permane nel tempo, ma che è sottoposta al continuo cambiamento delle relazioni che intratteniamo con gli altri. A tal proposito, secondo Donati, si tratta di evitare sia la Scilla di un sostanzialismo come quello tradizionale incentrato su un’ipostasi (io sono io), sia la Cariddi di una totale dissoluzione della sostanza personale nelle sue relazioni, tipo quella cui assistiamo in molta cultura contemporanea. La persona umana non è una sostanza sempre identica a se stessa, né si costituisce in modo dialettico come negazione dell’Altro, bensì per relazionamento a un’alterità. E’ la relazione che costituisce l’identità dell’io e dell’altro, senza negare la comune essenza umana di entrambi. L’altro è dunque in noi. Nella relazione noi incontriamo l’altro come nostro elemento costitutivo. Altro che autoreferenzialità! Come dice Donati, si affaccia così un nuovo genere di umanesimo, che non è tradizionale, né dialettico, bensì “relazionale”, tale per cui “l’essenza della persona viene a consistere in una dignità intransitiva che si specifica nella relazione che il Sé ha con un Altro che lo costituisce relazionalmente per alterità”.

   

Ce n’è abbastanza, mi pare, per avere un’idea della densità di questo libro. Quanto alle domande da cui siamo partiti circa la “differenza cristiana”, Donati abbozza una risposta nelle ultimissime pagine. I cattolici esprimono a suo avviso una differenza che, stante il contesto culturale nel quale essi sono chiamati a operare, si configura sempre di più come “marginalità” e “devianza”, ma essi hanno “la chiave che apre un altro mondo stando in quello presente” che essi amano profondamente. “Questa chiave, dice Donati, è l’alterità interumana vissuta come relazione di santificazione della vita quotidiana”.

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