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Confini culturali

Leo Strauss aveva previsto l'avvento dell'ideologia woke. Settant'anni fa

Il filosofo riesce a demistificare il linguaggio dominante e i suoi concetti assunti in modo acritico. Anche l'indignazione può essere una virtù, ma ai nostri giorni mira a stravolgere l’ordine oggettivo. Così a contare è la giustizia particolare, non più il bene comune

Alla metà del secolo scorso, la filosofia politica in senso classico era data per morta da quasi tutti. Ma settanta anni fa, nel dicembre del 1954, il filosofo tedesco-nordamericano Leo Strauss (1899-1973) tenne all’Università ebraica di Gerusalemme la sua famosa lezione su “Cosa è la filosofia politica?”, la quale richiamò potentemente alle coscienze la necessità del fare filosofia politica e le cui conclusioni possono leggersi come una premonizione del movimento woke dei nostri giorni.

Leo Strauss aveva fama di essere un filosofo politicamente conservatore, ma il suo scopo non era la restaurazione di forme di vita che avevano fatto il proprio tempo. Piuttosto, Strauss voleva preservare le condizioni che rendono possibile una società libera in senso classico. La sua idea di una società liberale contrasta in modo netto con le attuali tendenze dello Stato “terapeutico”, che interviene attivamente e in modo invasivo nelle vite dei cittadini. Lo Stato non deve operare discriminazioni tra i suoi cittadini nel senso che deve assicurare loro pari opportunità di accesso alle cariche pubbliche ed evitare distinzioni in base alla razza o alla religione. Questo è il principio liberale. Lo Stato odierno, tuttavia, è giunto a immischiarsi sempre più anche nella sfera privata, limitando pesantemente la libertà dei singoli nelle relazioni regolate dal diritto privato. 

Agli occhi di Strauss, la società moderna si era evoluta per effetto della successione di tre ondate di una filosofia politica sempre più radicale che ha distrutto la tradizionale visione dell’uomo e della società, sostituendola con una nuova. Egli riconosceva in Machiavelli il fondatore del pensiero politico moderno, il quale mirava a distruggere il cristianesimo attraverso una lunga guerra di logoramento spirituale. Machiavelli voleva in una sorta di precoce “illuminismo” creare nuove forme di ordine, e aveva in ciò avuto grande successo, se per Strauss era lecito parlare di una machiavellizzazione del pensiero politico occidentale nei secoli seguenti. La seconda ondata del pensiero politico moderno comincia con Rousseau, la cui filosofia cambiò drasticamente le concezioni morali nel mondo occidentale e che preparò a sua volta la terza ondata, culminata nel pensiero di Nietzsche, il quale smise di vedere nella storia dell’umanità lo svolgimento di un processo razionale. Sulla scorta di Nietzsche, infine, Heidegger rifiutò la tradizione di pensiero di Socrate, Platone e Aristotele e andò alla ricerca di un presunto pensiero “primigenio” (con conseguenze politiche inaudite, come nel suo caso la decisione per il nazionalsocialismo).

 

Il punto decisivo di questo sviluppo era stato l’abbandono di un criterio naturale per discernere ciò che è autenticamente buono e giusto. Per Strauss, il rifiuto del diritto naturale equivale al nichilismo, mentre la democrazia rappresentativa è quella forma di governo che a livello pratico meglio si avvicina alla idea di comunità politica dei filosofi antichi. La critica della democrazia che viene dai suoi amici può essere di grande aiuto. Questa forma di governo infatti presenta limiti che è importante riconoscere. Per Strauss è dunque moralmente e politicamente sbagliato stigmatizzare chiunque critichi la attuale democrazia come “nemico della costituzione”. Al contrario, con il relativismo morale e una politica debole la democrazia mette in pericolo se stessa. La Repubblica di Weimar, agli occhi di Strauss, era stata la pietosa immagine di una “giustizia priva della spada”. Ma una costituzione degna di questo nome non può fare a meno della lealtà incondizionata dei propri cittadini.

Strauss riuscì a fondare a Chicago una scuola, quella degli “straussiani”, che proseguirono la sua linea di pensiero. In essa ha un’importanza centrale Allan Bloom con il suo saggio The Closing of the American Mind (1987), che offrì una penetrante analisi del relativismo dei valori e del degrado dell’istruzione che caratterizzavano le università nordamericane a partire dagli anni Sessanta. Bloom lesse lo stato di disordine dell’anima degli americani posseduti dal nichilismo alla luce della Repubblica di Platone, riconoscendo nei propri studenti “versioni caricaturali di quelli che Platone aveva descritto come i giovani in una democrazia”: poco interessati al sapere, dal temperamento instabile, intrappolati nel proprio mondo allora dominato dal rock e dai video musicali.

Bloom attualizzò il pensiero di Strauss. Anche il suo scopo era difendere la libertà dello spirito nel senso di Socrate. A suo modo di vedere, per una formazione culturale adeguata era necessario mettersi con devozione in ascolto delle grandi menti del canone occidentale. Al multiculturalismo dogmatico dei suoi contemporanei Bloom opponeva la ricerca della verità sulle cose più importanti. Come il suo maestro Strauss aveva spiegato citando Tommaso d’Aquino, “la più piccola conoscenza che siamo in grado di ottenere intorno alle verità più elevate è di maggior valore, e più degna del nostro desiderio di conoscere, che non l’esatta conoscenza delle cose più basse” (Summa theologica I q. 1 a. 5). Con la sua puntuale critica del dogma della “diversità” impostosi nelle università, Bloom ha ulteriormente sviluppato il pensiero di Strauss. La sua diagnosi è estremamente attuale: chi issa le bandiere della diversità produce in realtà meno pluralismo intellettuale e prepara il campo a un conformismo che soffoca lo spirito. A monte di ciò sta un concetto indiscriminatamente esteso di ‘cultura’.

Come una volta notò Strauss, si era arrivati a parlare per esempio di “cultura delle gang giovanili”: il postmoderno comprende in ultima analisi qualunque cosa come “cultura” e rende impossibile praticare filosofia nel senso originario, dato che per esso non c’è nulla che trascenda la cultura. Bloom vide nel decostruzionismo l’estremo tentativo di sottomettere la ragione e di negare la stessa possibilità di una vera filosofia proprio in nome della filosofia. I sociologi, come i giornalisti, chiamano qualunque cosa “cultura” e perfino il fallimento della formazione intellettuale (della Bildung) può essere fatto passare come tale. Strauss aveva illustrato questo profondo sconvolgimento del concetto di cultura con questa vivida immagine: “se si confronta l’impiego attuale del concetto di cultura con il significato originario, è come se qualcuno dicesse che la cura di un giardino può consistere nel lasciarvi disseminate lattine e bottiglie di whisky vuote e vecchi cartoni”

Fin dal lavoro condotto sugli autori arabi dell’islam medioevale, Strauss si era impegnato alla ricerca di un “illuminismo” che non conoscesse confini culturali e che inseguisse la verità ovunque ci fosse almeno un uomo che seriamente interessato a trovarla. Lo studio non può essere mai subordinato a interessi di corto respiro ma – proprio per compiere la propria funzione sociale e liberale – deve essere, apparentemente o effettivamente, inutile. La sua prima precondizione è – contro ogni odierna cancel culture – la disponibilità ad apprendere dai pensatori del passato. 

Avvinto da quella che Karl Popper avrebbe giudicato essere la “malia di Platone”, eppure da quello stesso Platone liberato dai pregiudizi e dalle opinioni alla moda dei suoi contemporanei, Bloom poté a sua volta trasmettere l’ispirazione ricevuta da Strauss a numerosi studenti. Qui ha giocato un ruolo importante il richiamo alla concezione classica di anima, la quale è concezione distinta e separata da quella del sé. Infatti, mentre la concezione di anima è legata a un ordine oggettivo ad essa esterno e preesistente all’uomo, quella del sé dei moderni corrisponde all’idea che il singolo possa creare se stesso in piena libertà e indipendenza da questo ordine oggettivo ed esterno. Ma in questo modo non si può più distinguere oggettivamente tra il bene e il male. Il relativismo dei valori è il logico risultato di questa “creazione di sé”. Su questa linea si potrebbero citare altri straussiani, ad esempio Harvey Mansfield che nel suo libro sulla Manliness (2006) riscopre contro il femminismo dogmatico le virtù della virilità: un contributo quanto mai necessario per custodire la polarità dei sessi nella sua dimensione sociale.

La attualità del pensiero di Strauss, Bloom e Mansfield sta nella sua capacità di demistificare il linguaggio dominante e i suoi concetti assunti in modo acritico. Questo lavoro “illuministico” è, dal punto di vista della filosofia politica, il compito più urgente per il cittadino che, in uno Stato moderno, abbia interesse a non perdere di vista il bene di tutti. Certamente anche l’indignazione può essere una virtù: ma oggi essa mira a stravolgere l’ordine oggettivo in modo tale che è la giustizia della causa particolare e non più il bene comune a essere messo in primo piano. Invece ogni contrasto di opinioni dovrebbe essere condotto in spirito socratico. E in una società in crisi come la nostra oggi è proprio la riflessione sul problema di Socrate, che è il problema del bene, l’unica cosa necessaria.
Till Kinzel
 
L’articolo, tradotto per il Foglio da Giuseppe Perconte Licatese, è stato pubblicato sul periodico tedesco Tagespost.

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