(foto d'archivio Ansa)

in libreria

Nel freddo e nell'alternarsi di silenzi e parole c'è il segreto dell'opera di Fleur Jaeggy

Giulio Silvano

I suoi romanzi sono come inaspettate stelle cadenti su una scena letteraria italiana spesso prevedibile. E le sue opere diventano subito canone. Il saggio di Matteo Moca

E se la vera letteratura fosse il vuoto tra le parole? Se l’arte fosse il non detto? E’ la domanda di fondo che si fa Matteo Moca studiando l’opera di Fleur Jaeggy in Una consunzione infinita (Italo Svevo editore). Svizzera, adelphiana, compagna di una vita di Roberto Calasso, autrice di Battiato, amica di Brodskij e di Ingeborg Bachmann, Jaeggy ha pubblicato poco, e quello che ha pubblicato è piuttosto asciutto, distribuito in quasi sessant’anni di elegantissima carriera. I suoi romanzi sono come inaspettate stelle cadenti su una scena letteraria italiana spesso prevedibile – nessuno sa quando e se uscirà un prossimo libro di Jaeggy –  e le sue opere diventano subito canone. I beati anni del castigo è un libro che neanche Cesare Garboli sapeva classificare. Un altro Cesare – Cases – diceva che morta Elsa Morante, Jaeggy è la più grande scrittrice italiana. 

 

Moca per il suo studio sceglie un esergo di Landolfi che si può usare come torcia nel labirinto della letteratura jaeggiana: “Ma la pagina bianca è muta e cieca / e nulla ci rimanda / se non la nostra voce e il nostro sangue. / Di pagine bianche / è impossibile vivere”. Perché la parola, come nell’attesa di Godot, “si configura come un altrettanto inutile mezzo per trascorrere il tempo”. Ma per produrre narrativa e pubblicare libri, qualche parola serve, e ognuna è scelta da Jaeggy con estrema cautela, dandole un potere da massima, da epigrafe. E non è un caso che spesso le sue frasi di romanzi e racconti – come fa spesso Chiara Valerio su X – possano diventare dei perfetti messaggi aforistici che funzionano, à la Kraus, anche staccati dal contesto narrativo. Un esempio: “Spesso i buoni propositi diventano rituali di bassa stregoneria”. 

 

“Mai in Jaeggy esiste qualcosa di casuale”, scrive Moca. E questo è valido anche per i contenuti e per i temi ricorrenti. I bambini, i fantasmi, i collegi del nord, le madri assenti, la neve, e di nuovo l’incomunicabilità, “che sfocia nell’isolamento dal mondo” come ne L’angelo custode, e in un linguaggio che si assottiglia sempre di più come nelle pagine di Le statue d’acqua. E poi “la tensione verso l’ignoto”, il tutto inzuppato in una costante “impossibilità di descrivere il mondo”. Leggendo con attenzione i libri di Jaeggy, Moca tende dei fili facendoci rendere conto – come spesso fanno i critici, forse proprio la loro missione principale – che i grandi scrittori scrivono un libro per tutta la vita, un libro unico arricchito dal tempo, dall’esperienza e dall’autoanalisi, oltre che dalle amicizie e dalle letture – Anna Maria Ortese e Canetti, De Quincey e Robert Walser, per citare alcune presenze nella vita di Jaeggy.

 

Dopo il periodo romano, dove incontra Calasso all’università – i due si sposano a Londra, “amore di tutta una vita” – inizia l’era milanese. Ma l’immaginario è quello svizzero, di un nord nevoso e freddo. Jaeggy è una scrittrice che viene dal freddo. Tutto ciò che accade nei libri è toccato dalle basse temperature, interne ed esterne, tempo meteorologico e psicologico che porta a “itinerari oscuri”. Mentre scrive sulla sua Hermes Ambassador verde, a Milano, Jaeggy riproduce forse i ricordi d’infanzia, forse un mitologico walseriano paesaggio che sarebbe anche troppo dark per il periodo di Wes Anderson ispirato a Zweig. Nel freddo quindi, “e nell’alternarsi di silenzi e di parole”, scrive Moca, risiede “se esiste, il segreto dell’opera di Fleur Jaeggy”.

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